Commissione antimafia: “Il capo dei Casalesi Giuseppe Setola aveva riferito che, nel 2007, durante un periodo di comune detenzione, un mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti, gli avrebbe raccontato che un uomo della propria cosca avrebbe ammazzato un giovane «oncologo» di Barcellona che aveva visitato Provenzano in «Svizzera» per problemi alla prostata. Tali dichiarazioni de relato, valutate dalla Commissione, suscitano qualche perplessità, non solo per l’imprecisione del racconto (per i riferimenti all’«oncologo» e alla «Svizzera») ma anche perché Gullotti, sia all’epoca dei viaggi di Provenzano a Marsiglia, sia all’epoca della morte del Manca, era detenuto”.

Giuseppe Setola. Sopra: il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico

L’Informazione: A parlare non è un tagliagole qualsiasi, ma Giuseppe Setola, uno dei boss più sanguinari (si è autoaccusato di 46 omicidi) del crimine organizzato in Italia. Il quale – badate bene – rende queste dichiarazioni non ai magistrati napoletani, suoi naturali referenti (che svolgono il loro lavoro con scrupolo), ma ai pm del processo Trattativa, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, con i quali chiede espressamente di parlare. Se vuole parlare con i titolari di quel dibattimento, è perché evidentemente Setola collega la morte di Attilio Manca con la Trattativa. Setola dice di avere appreso dal capo della mafia barcellonese Giuseppe Gullotti (condannato definitivamente per essere stato il mandante dell’assassinio del giornalista di Barcellona, Beppe Alfano) che Attilio Manca è stato ucciso perché coinvolto nell’operazione chirurgica di Provenzano. Che fa la Commissione? Intanto liquida un boss come Gullotti – personaggio apicale perché in collegamento con i servizi segreti deviati, la massoneria e la politica di altissimo livello – come “un mafioso”, omettendo il ruolo che egli stesso ha avuto con i Corleonesi nella strategia stragista che ha portato all’attentato a Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta. E poi – invece di concentrarsi sui contenuti, magari mettendoli a confronto con le affermazioni degli altri pentiti – mette in discussione le dichiarazioni di Setola. Per quali ragioni? Perché il boss, invece di dire urologo dice “oncologo” e invece di dire Francia dice “Svizzera”. Ma non basta. Le dichiarazioni sono de relato (cioè non apprese direttamente da Gullotti) e quindi suscitano altre “perplessità”. Neanche il tempo di scorrere la riga successiva e ci si imbatte in un’altra “perplessità”: siccome il boss barcellonese (sia quando Provenzano si opera a Marsiglia, sia quando Attilio Manca viene trovato morto) è in carcere, è impossibilitato a conoscere i segreti della mafia barcellonese, come se non è risaputo che i capi mafia sono sempre informati di quello che accade all’esterno. Evidentemente Giuseppe Gullotti è un’eccezione.

Commissione antimafia: Inoltre, Setola, nel corso di un interrogatorio reso alla procura della Repubblica di Napoli l’11 ottobre 2014, affermava che solo a partire da tale data egli stava intraprendendo una collaborazione con la giustizia, mettendo in dubbio la portata delle dichiarazioni rese in precedenza; il successivo 27 ottobre 2014 smentiva quanto prima dichiarato in ordine ad attentati programmati nei confronti di magistrati; il successivo 11 novembre 2014, revocava la volontà di collaborare con la giustizia.

L’Informazione: Peccato che la maggioranza della Commissione, anche in questo caso, si dimostri parca di informazioni. Alla domanda posta in audizione da uno dei componenti dell’Antimafia, Francesco D’Uva del M5S (“Quindi le dichiarazioni di Setola non sono attendibili?”), il procuratore della Repubblica di Napoli Giovanni Colangeli e il procuratore aggiunto presso lo stesso Tribunale, Giuseppe Borrelli (che hanno gestito le dichiarazioni del boss), rispondono: “Non abbiamo detto questo. Le sue dichiarazioni, per quello che ha cominciato a raccontare, apparivano attendibili, anzi apparivano di grande interesse”. I magistrati – se comprendiamo bene – vogliono dire che, pur trattandosi di un soggetto da trattare con cautela (e ora vedremo perché), dice delle cose da valutare con estrema attenzione. Così proseguono: “Poi però ha ritrattato. È un personaggio molto labile e ondivago, sul quale il nostro approccio, fin dall’inizio, è stato estremamente prudente, tanto che è stata chiesta la revoca del regime di protezione. Setola rappresenta il paradigma delle difficoltà della gestione dei collaboratori di giustizia. In aula si è pubblicamente assunto la paternità di ben 46 omicidi, a fronte dei 23 che gli erano stati contestati, dunque era disponibile a rendere dichiarazioni su quelli che gli inquirenti non gli avevano ancora attribuito. A quel punto la scelta di sentirlo si rendeva necessaria. Dopo due udienze, il suo comportamento è cambiato completamente”. Perché? “La moglie ha deciso di non spostarsi dal paese di origine, Casal di Principe, rifiutando di vivere nella località protetta dove era stato deciso di mandarla. Di fronte a questo, Setola non ha più collaborato”. Chiaro? Secondo i magistrati, quindi, ci sarebbe un nesso di causa (la paura di una vendetta per la sua famiglia) e di effetto (le ritrattazioni) alla base dell’atteggiamento “labile e ondivago”. Interessante, su questo punto, quel che Antonio Ingroia (avvocato della famiglia Manca assieme a Fabio Repici) dichiara a chi scrive: “Fin quando le notizie erano rimaste segrete, cioè nel circuito investigativo dei magistrati che se ne occupavano, Setola parlava. Appena sono diventate pubbliche e si è parlato di una possibile riapertura dell’indagine sulla morte di Attilio Manca abbiamo registrato la sua improvvisa marcia indietro. Se è una coincidenza è molto singolare”. Ma di tutto questo la Commissione presieduta dalla Bindi non parla.

Bernardo Provenzano (a sinistra) e Stefano Lo Verso (a destra)

Commissione antimafia: Anche su sollecitazione dell’avvocato Antonio Ingroia, come da questi riferito alla Commissione, giungevano poi, all’esame della procura della Repubblica di Roma, altre propalazioni di dichiaranti che potevano essere astrattamente utili per una diversa ricostruzione dei fatti per come finora riportati. La Commissione, tuttavia, non ha ritenuto né opportuno né proficuo svolgere, su tali rivelazioni, accertamenti paralleli e coevi rispetto a quelli dell’autorità giudiziaria.

L’Informazione: Liquidato Setola, vediamo come – attraverso la relazione – come vengono gestite le dichiarazioni dagli altre tre. L’altro pentito si chiama Stefano Lo Verso, è stato l’autista di Bernardo Provenzano, ed è la persona che – forse più delle altre – è depositaria dei segreti di “Binnu ‘u tratturi”: in udienza a un certo punto dice spontaneamente di conoscere i segreti della morte di Attilio Manca e di essere disponibile a svelarli. È stato sentito? Silenzio assoluto anche su questo. Poi, come un fulmine a ciel sereno”, arrivano le dichiarazioni (anche queste “astrattamente utili”) del terzo pentito: Carmelo D’Amico, boss di Barcellona Pozzo di Gotto, soggetto ritenuto attendibile in molte vicende, ma ignorato in questo caso. D’Amico dice delle cose così così circostanziate che non riusciamo davvero a comprendere il motivo per il quale non viene preso in considerazione. Dice – come gli altri pentiti – che Attilio è stato ucciso perché ha avuto a che fare con l’operazione di Provenzano, ma aggiunge che per questo delitto si sarebbero mossi i “poteri forti”.

Parla del presunto mandante: il potentissimo avvocato barcellonese Rosario Pio Cattafi, ritenuto, assieme a Gullotti (di cui è stato testimone di nozze), il boss di Barcellona collegato con i servizi segreti deviati, la massoneria e la politica. Parla del presunto esecutore: un agente dei servizi segreti deviati (“u bruttu” e “u calabrisi) capace di camuffare gli omicidi con i suicidi. Parla della persona che gli avrebbe fatto queste confidenze: il medico Salvatore Rugolo (figlio dell’ex boss di Barcellona, Ciccio Rugolo, e fratello di Venerina, moglie di Gullotti) che “ce l’aveva a morte con Cattafi, perché aveva fatto ammazzare Attilio Manca, suo caro amico”. Parla di un presunto trait d’union di Cattafi, “un Generale dei Carabinieri, amico del Cattafi, vicino e collegato agli ambienti della ‘Corda Fratres”.  Costui – secondo D’Amico – “aveva chiesto a Cattafi di mettere in contatto Provenzano, che aveva bisogno urgente di cure mediche alla prostata, con l’urologo Attilio Manca, cosa che Cattafi aveva fatto”. D’Amico offre ai magistrati un formidabile spunto di indagine per imboccare la pista mafiosa. Ma anche stavolta – sia per i magistrati che per l’Antimafia – ci troviamo al cospetto di un pentito “astrattamente utile”.

Rosario Pio Cattafi

Il copione viene riproposto nel febbraio 2017 in occasione delle esternazioni del quarto pentito: Giuseppe Campo, in carcere per associazione mafiosa, estorsione, rapina e traffico di stupefacenti, il quale afferma di essere stato incaricato dalla mafia barcellonese di uccidere un “dottore” nel periodo tra il Natale e il capodanno del 2003. Poi aggiunge di essere stato ricontattato per un contrordine. Dopo qualche tempo, Campo apprende dalla televisione che a Viterbo era stato trovato morto un medico di Barcellona Pozzo di Gotto, e capisce anche che non si tratta di un decesso per overdose bensì di un delitto di mafia. E allora collega il “dottore” con Attilio Manca. Il pentito va oltre e dice che ad essere coinvolto nell’omicidio dell’urologo è il cugino Ugo Manca, ma anche lui non si rende conto che dichiara delle cose “astrattamente utili”. Nella prossima ed ultima puntata le “conclusioni” della Commissione antimafia, e anche le nostre.

Luciano Mirone

6^ puntata. Continua