Alle 9:01 del 16 marzo 1978 in via Mario Fani a Roma un commando delle Brigate rosse blocca l’auto che trasporta il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro – fino a due anni prima presidente del Consiglio – mentre è diretta alla Camera dei deputati. In soli tre minuti rapisce il parlamentare e uccide i cinque militari di scorta. È l’attacco più grave del dopoguerra inferto a una carica istituzionale. Sono giorni drammatici, probabilmente i più drammatici dell’Italia repubblicana.
Quella mattina Giulio Andreotti deve ottenere la fiducia per il nuovo governo, l’Andreotti IV, il trentaquattresimo del dopoguerra, il secondo della VII legislatura, che resterà in carica 374 giorni. Un governo a forte impronta democristiana, ma che, proprio su ispirazione di Moro, dovrebbe costituire il viatico per una graduale apertura al Partito comunista italiano di Enrico Berlinguer.
Di quell’esecutivo fanno parte, tra gli altri, tre cattolici democratici che non disdegnano il dialogo col Pci: Ciriaco De Mita, Tina Anselmi e Romano Prodi.
Ma esiste un progetto politico di Moro – nel contesto dell’apertura al Pci – che prevede la sua elezione alla presidenza della Repubblica, quella di Benigno Zaccagnini alla presidenza del Consiglio nazionale Dc e quella di Flaminio Piccoli alla presidenza del Consiglio, con l’esautorazione di Giulio Andreotti. E questo ovviamente non piace allo stesso Andreotti e neanche agli Stati Uniti.
Secondo i primi dati dell’inchiesta ufficiale, i componenti del commando che uccidono la scorta e sequestrano Aldo Moro sono undici – uno in meno di quanti, quattro anni prima, ne sono stati impiegati per rapire il giudice Mario Sossi – indossano tute da avieri civili e viaggiano a bordo di diverse auto, almeno una con targa del Corpo diplomatico.
Secondo le indagini successive, il gruppo di fuoco è composto da circa diciannove persone, non tutte delle Br. Una ricostruzione che appare aderente alla realtà, se consideriamo l’importanza della personalità da sequestrare e la complessità dell’operazione da compiere, a maggior ragione se si pensa che tutto si svolge a Roma, in un’ora di traffico intenso.
Dunque, per colpire al cuore lo Stato, non si sarebbero mosse solo le Br, ma altre entità. Come ventinove anni prima a Portella della Ginestra, dove ufficialmente dai monti Palavet e Kumeta sparano gli uomini di Giuliano e della mafia, ma dove verosimilmente c’è la presenza dei servizi segreti americani e della Decima Mas.
Chi già dalle prime ore dimostra di sapere molto della strage di via Fani è il giornalista Mino Pecorelli, direttore del settimanale «Op» (Osservatorio Politico): «Gli autori della strage di via Fani e del sequestro di Aldo Moro sono dei professionisti addestrati in scuole di guerra del massimo livello. I killer mandati all’assalto dell’auto del presidente potrebbero invece essere manovalanza reclutata in piazza».
Almeno cinque i motivi che lo dimostrano: 1) la natura «professionale» dell’agguato che prevede una «operazione chirurgica» finalizzata alla soppressione di tutti gli agenti della scorta e al prelievo dell’ostaggio, appena sfiorato da una pallottola; 2) la presenza di cecchini di rarissima abilità che riescono ad annientare una scorta di agenti addestrati a fronteggiare il terrorismo; 3) su novantasette bossoli ritrovati, sessantadue sono sparati da una sola arma, venti da un’altra, pochissimi dalle altre; 4) l’ipotesi che le armi usate appartengano – secondo il perito del primo processo Moro – a uno stock in dotazione “a forze militari non convenzionali”; 5) la presenza sul luogo del sequestro di esponenti della ’ndrangheta calabrese e di un ufficiale del Sismi che apparterrebbe a «Gladio» (circostanza smentita dall’interessato), il quale nei vari interrogatori spiega di essersi trovato casualmente in quella zona.
Lo Stato è tramortito. L’indignazione dell’opinione pubblica è al calor bianco. Il Paese rischia la catastrofe. Sono ore convulse, le ore della «Solidarietà nazionale», le ore in cui il Pci stabilisce di dare l’appoggio esterno ad Andreotti, le ore in cui il governo decide di richiamare l’unico uomo in grado di fronteggiare le Br: Carlo Alberto dalla Chiesa. Che viene invitato nuovamente a formare il Nucleo speciale antiterrorismo.
Dalla Chiesa frattanto vive un dramma privato: la perdita della moglie Dora, la persona – come dichiara in un’intervista – più importante della sua vita.
Malgrado questo, dalla Chiesa non si sottrae ai doveri del servizio, che adesso si fanno più incombenti e delicati. Riunisce i suoi uomini e dice loro: «Da oggi nessuno di voi ha più una famiglia, una casa. Da adesso dovete considerarvi in clandestinità. Io sono il vostro unico punto di riferimento. Io vi darò una casa. Io vi ordino dove andare e cosa fare. Il Paese è terrorizzato dai terroristi. Da oggi sono loro che devono cominciare ad avere paura di noi e dello Stato».
Il generale dà la caccia ai rapitori di Moro e pensa – almeno all’inizio – che il sequestro dello statista sia opera esclusiva delle Br. Col tempo si accorge che la realtà è molto più complessa di come la si vuole far credere. Le Br, certo, ma solo le Br? Troppi fatti strani si verificano in quei cinquantacinque giorni di prigionia.
Dice Giovanni Galloni, ex vice segretario della Democrazia cristiana: «Poche settimane prima del rapimento, Moro mi confidò di essere a conoscenza del fatto che sia i servizi americani che quelli israeliani avevano degli infiltrati nelle Br». E poi: per gli americani «l’entrata dei comunisti in Italia, nel governo o nella maggioranza, era una questione strategica, di vita o di morte, “life or death”, come dissero, perché se fossero arrivati i comunisti al governo, in Italia sicuramente loro sarebbero stati cacciati da quelle basi e questo non lo potevano permettere a nessun costo».
Parole che trovano conferma nelle dichiarazioni rese più volte alla magistratura e alle commissioni parlamentari d’inchiesta dalla moglie di Aldo Moro. È dal 1964 – secondo Eleonora Moro – dalla formazione del primo governo di Centrosinistra, che gli Stati Uniti operano una pressione costante sull’ex presidente della Dc perché rispetti gli «Accordi di Yalta». Ma è dal 1973 – anno in cui Moro si avvicina al Pci attraverso il «Compromesso storico» – che le pressioni si intensificano. Nel ’74 il segretario di Stato americano Henry Kissinger, rivolgendosi direttamente allo statista, giudica «pericolosi» i rapporti con Mosca. Nel marzo del 1976 – a pochissimi giorni dal rapimento – gli ammonimenti diventano delle vere e proprie minacce.
Eleonora Moro rivela un particolare clamoroso riferitole dal marito: «Gli americani gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona [si presume che si tratti ancora di Henry Kissinger, nda]: “Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. O la smette di fare questa cosa, o la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere”».
Lo scrittore Sergio Flamigni nel libro La tela del ragno disegna uno scenario del genere: nel rapimento Moro è coinvolta pesantemente la P2, con Gladio e la Cia che hanno il compito di infiltrarsi nelle Br. Secondo Flamigni, Mario Moretti, uno dei capi brigatisti che sequestra il presidente della Dc, in quei cinquantacinque giorni, viene «eterodiretto» da qualcuno.
In quelle ore convulse il ministro dell’Interno Francesco Cossiga istituisce ufficialmente due Comitati di crisi. Sì, perché ce n’è un terzo, non ufficiale, che ha funzioni e ruoli non meglio precisati.
Il primo Comitato, definito «Tecnico-politico-operativo», è presieduto dallo stesso Cossiga. Ne fanno parte i comandanti della Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di finanza, i direttori del Sismi e del Sisde, il segretario generale del Cesis, il direttore dell’Ucigos e il questore di Roma.
Il secondo, detto di «Informazione», è formato dai responsabili dei vari servizi segreti, Cesis, Sisde, Sismi e Sios.
Il terzo è un fantomatico «Comitato di esperti». Secondo Cossiga non si sarebbe mai riunito collegialmente. In realtà non si conosce nulla di questo organismo. L’ex Presidente della Repubblica ne svela l’esistenza alla commissione Moro solo nel 1981, ma non spiega le attività e le decisioni adottate all’interno.
Luciano Mirone
1^ puntata. Continua
(dal libro di Luciano Mirone “A Palermo per morire. I cento giorni che condannarono il generale Dalla Chiesa” – Castelvecchi editore)
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