Aveva catturato i due pezzi da Novanta della mafia catanese (dopo Nitto Santapaola): quell’Aldo Ercolano che qualche anno prima aveva assassinato il giornalista Pippo Fava, e quel Giuseppe Pulvirenti detto il “Malpassoto”, che era l’implacabile esecutore degli ordini di don Nitto in provincia. Cosa nostra se l’era legata al dito e negli anni Novanta aveva decretato: Luigi Venezia, componente della “squadra” Lupi del Comando provinciale dei carabinieri di Catania, deve morire. Per eseguire la missione di morte sarebbero stati incaricati due sicari della cosca dei Laudani armati fino ai denti: Pippo Di Giacomo e Aldo Giuffrida (oggi entrambi pentiti): aspettarono che il militare uscisse dalla caserma di Acireale e al momento giusto agirono.

Il boss Giuseppe detto ‘u Malpassotu. Sopra: Luigi Venezia

Ma lui, Luigi Venezia, che della mafia immaginava i movimenti e le intenzioni, riuscì a salvarsi: mentre stava per raggiungere il casello dell’autostrada per Catania si accorse di un’auto che con gli abbaglianti gli tagliava la strada. In quel momento intuì quello che stava per succedere: un millesimo di secondo prima che i killer cominciassero a far fuoco, si rannicchiò sul sedile e si salvò la vita.

Diversi anni dopo, quando ormai i più grossi capi della criminalità catanese erano stati arrestati, Venezia era andato in pensione, ma non aveva perso l’abitudine di non potere vedere i mafiosi. Un vizio troppo brutto, specie se nello stesso paese in cui si vive – San Giovanni la Punta – ci si guarda in cagnesco e magari qualche volta si finisce a muso duro anche incrociandosi per strada o magari scambiando qualche parola: uno è il personaggio di spicco del clan che aveva teso la trappola, l’altro è lo “sbirro” con la divisa cucita addosso che l’aveva evitata.

Nessuno dei due ha dimenticato. E del resto non si può dimenticare. Luigi Venezia era una specie di schedato, uno che si era permesso di “attaccare” (di arrestare) il gotha” di Cosa nostra a Catania. E mentre i superiori, dopo quelle operazioni, erano andati via dal capoluogo etneo, lui era rimasto lì, a “convivere” con il “contesto”, a incontrarsi la mattina al bar, e magari a sentire certe battute “ad incertam personam”, ma indirizzate a chi deve sentire.

Naturalmente non sappiamo se tutto questo – la cattura di Ercolano e Pulvirenti, il fallito attentato e l’alterco che, secondo i colleghi, l’ex carabiniere avrebbe avuto con qualche esponente del clan dei Laudani di San Giovanni la Punta – abbia attinenza con l’assassinio di cui Luigi Venezia è rimasto vittima ieri pomeriggio in contrada Sabbuci a Lentini (Siracusa), una zona frequentata da prostitute (ieri sera messe sotto torchio dagli inquirenti per diverse ore), teatro negli ultimi tempi di numerose rapine.

E però ciò che colpisce è l’esecuzione: due individui col volto coperto che sparano contro l’ex militare (a bordo di un fuoristrada), il quale reagisce innescando un conflitto a fuoco nel quale lui stesso ha la peggio. Quindi i malviventi rovistano nelle tasche della vittima prelevando la pistola che Venezia portava con sé (altro particolare interessante che spiega come certi timori, malgrado gli anni trascorsi da quel fallito attentato, non siano stati rimossi).

Potrebbe essere stato un omicidio a scopo di rapina, certo, ma potrebbe essere stato altro. Troppi strani particolari, troppe singolari coincidenze: lo sbirro-la rapina-le prostitute-i volti coperti degli assassini-il furto della pistola, con un passato ancora troppo presente a Catania per essere cancellato. Il sostituto procuratore Salvatore Grillo indaga in tutte le direzioni, mentre la grande stampa nazionale è assente.

Luciano Mirone