Moro intanto scrive una lettera al segretario della Dc Benigno Zaccagnini: «Caro Zaccagnini, scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono a un tempo individuali e collettive. Parlo innanzitutto della Dc alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare. Certo nelle decisioni sono in gioco altri partiti; ma un così tremendo problema di coscienza riguarda innanzitutto la Dc, la quale deve muoversi, qualunque cosa dicano, o dicano nell’immediato, gli altri. Parlo innanzitutto del Partito comunista, il quale, pur nella opportunità di affermare esigenze di fermezza, non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m’ero tanto adoperato a costituire».

16 Marzo 1978. Via Fani pochi minuti dopo il rapimento di Aldo Moro. Sopra: Una foto rarissima pubblicata nei giorni scorsi dall’Espresso e ripubblicata dal Messaggero: la presenza sul luogo della strage di un soggetto appartenente alla ‘ndrangheta calabrese

Soltanto il 17 marzo del 1981 – quando a Castiglion Fibocchi, nella casa di Licio Gelli, vengono rinvenuti i tabulati con le liste degli iscritti alla P2 – si capisce perché le indagini per ritrovare Moro non sono andate avanti.

Nomi di alti ufficiali che nei giorni del sequestro, hanno un ruolo fondamentale nello svolgimento delle indagini. Alcuni di questi vengono promossi addirittura durante i cinquantacinque giorni della prigionia di Moro, altri subito dopo: il direttore del Sismi, Giuseppe Santovito; il prefetto Walter Pelosi, direttore del Cesis; il generale Giulio Grassini, componente del Sisde; l’ammiraglio Antonino Geraci, capo del Sios della Marina Militare; Federico Umberto D’Amato, direttore dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno; il comandante della Guardia di Finanza, Raffaele Giudice; il generale Donato Lo Prete, capo di Stato maggiore della Guardia di Finanza; il generale dei Carabinieri Giuseppe Siracusano.

Un lungo elenco che dimostra come nel periodo del rapimento Moro la strategia dell’eversione abbia attraversato il cuore dello Stato.

Ma c’è un’altra circostanza sconvolgente che dimostra come lo statista, nei cinquantacinque giorni di prigionia, potesse essere salvato.

Una tesi che – malgrado “non vi siano elementi probatori a sostegno”, come scrivono i magistrati di Perugia – emerge dagli articoli di Mino Pecorelli, dagli atti della commissione Moro e dagli atti del processo sul delitto Pecorelli.

In queste carte si legge che Carlo Alberto dalla Chiesa era a conoscenza del luogo dove era tenuto nascosto il presidente della Dc. Pare che fosse previsto il rilascio di Moro sotto la sorveglianza dei carabinieri. Ma per un’irruzione era necessario il placet del governo. Se lo statista fosse stato ucciso  durante un conflitto a fuoco, non poteva essere il solo dalla Chiesa a pagare. Dunque era necessario il via libera da parte dell’esecutivo. Dalla Chiesa si sarebbe recato da Cossiga per ottenere un assenso, ma Cossiga avrebbe detto di no. Perché? Il ministro dell’Interno si sarebbe trincerato dietro a una metafora. C’è una «Loggia di Cristo in paradiso» che si oppone.

L’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, poi presidente della Repubblica

Anche una parte della politica si mobilita per salvare lo statista democristiano. Sono due i rappresentanti parlamentari che contattano i boss affinché si possa arrivare ai terroristi. Politici di secondo piano che probabilmente agiscono per conto di alti vertici dello Stato, i quali ritengono di non esporsi sia per non compromettersi direttamente, sia per evitare la gogna in caso di insuccesso. I partiti ufficialmente si sono espressi quasi all’unanimità per la linea dura: l’iniziativa di contattare la criminalità per salvare Moro, più che finalizzata a trattare, appare finalizzata a sondare, per decidere eventualmente il da farsi.

E così due illustri sconosciuti del mondo politico, Edoardo Formisano del Movimento sociale italiano, e Benito Cazora della Democrazia cristiana fanno i loro passi per il rilascio del prigioniero.

Mediante i contatti con i capi della mala milanese Francis Turatello e Ugo Bossi, Formisano riesce ad arrivare a Tommaso Buscetta e a proporre a Cosa nostra una trattativa segreta con le Br. La proposta viene illustrata da Stefano Bontate alla «Cupola» riunita appositamente. Alla fine di un summit molto acceso, Pippo Calò taglia corto: «Non l’avete ancora capito? Moro lo vogliono morto quelli stessi della Dc». La trattativa non va avanti.

Va avanti la seconda. Benito Cazora ha il compito di avvicinare la ’ndrangheta per arrivare alle Br. Secondo la ricostruzione dei magistrati, il 7 maggio 1978 – due giorni prima dell’assassinio dello statista – Cazora si incontra con un emissario dei boss calabresi, tale Varone, che gli rivela tre particolari sconvolgenti: innanzitutto il luogo nel quale è tenuto prigioniero Aldo Moro, poi che da trentasei ore il presidente della Dc è senza carcerieri perché l’ala romana delle Br si è recata al Nord Italia per una riunione urgente (forse quella decisiva), infine che se si vuole salvare Moro è necessaria un’irruzione dei reparti speciali dell’antiterrorismo.

Dunque, almeno due giorni prima della morte di Moro, lo Stato sa dove è nascosto il prigioniero (ma probabilmente lo sa da prima, visto che dalla Chiesa avrebbe già informato Cossiga), sa che Moro da trentasei ore è senza vigilanza, e sa che per liberarlo è necessario un blitz.

Cazora informa immediatamente il sottosegretario all’Interno Nicola Lettieri, diretta emanazione di Cossiga.

«Lettieri telefona al capo della Polizia, ma al suo posto arriva il questore De Francesco», colui che nel 1982, dopo l’assassinio dalla Chiesa, sarà nominato dal governo Commissario straordinario per la lotta alla mafia.

«De Francesco dice che da loro informazioni Aldo Moro sarebbe stato consegnato vivo il martedì successivo». Non solo: «De Francesco dice pure che non può fornire il personale richiesto».

Dunque, se quello che emerge è vero, non solo c’è la certezza che lo Stato sa, ma c’è anche la certezza che lo Stato non vuole salvare lo statista democristiano. Infatti «il martedì Aldo Moro viene ritrovato morto».

Luciano Mirone

3^ puntata. (La quarta ed ultima puntata verrà pubblicata fra 55 giorni).

(tratto dal libro di Luciano Mirone “A Palermo per morire. I cento giorni che costarono la vita al generale Dalla Chiesa” – Castelvecchi editore)