Perché nelle televisioni e nei giornali nazionali si parla poco di Palermo e meno di niente del suo sindaco? Perché non si dice che se la “capitale della mafia” è diventata la “capitale della cultura” (e anche patrimonio Unesco dell’umanità) il merito è di Orlando? Perché non si fa vedere com’era il capoluogo siciliano qualche decennio fa e come è oggi: un itinerario fantastico, in molte parti ristrutturato e valorizzato, che non va visto solo dal punto di vista turistico, ma soprattutto “politico”. Invece di essere un caso nazionale, Palermo è confinata ai giornali e ai telegiornali regionali. Eppure quando pronunci questa parola, Palermo, non pronunci il nome di una città qualsiasi. Evochi una categoria dello spirito, dove lo squallore e la magnificenza, la strage e la reazione popolare, il delitto eccellente e la questione morale, il saccheggio e la ricostruzione si mescolano e danno vita a questa parola incredibile: Palermo. Che è molto più del nome di un capoluogo.

Lo straordinario cambiamento della città è il frutto di un lavoro pazzesco, ma anche di una grande intransigenza morale, di uno studio, di una preparazione culturale e, perché no, di qualche compromesso politico. È la sintesi di tante culture di cui Orlando è portatore. La cultura della legalità, del pragmatismo, della bellezza, dell’accoglienza, della memoria, del rispetto della persona umana e delle diversità, delle religioni (non solo quella cattolica, di cui il sindaco è osservante). Il messaggio che parte oggi da Palermo è rivoluzionario per l’Italia, ma anche per il mondo, perché – in un momento di preoccupante deriva razzista – è alternativo al trumpismo. Eppure l’argomento è tabù.

E il motivo c’è. Va ricercato nella “censura” che Orlando subisce da quando – fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta – con le sue denunce pesantissime contro il sistema della mafia e della corruzione ha contribuito in modo determinante a fare implodere la Prima Repubblica riciclatasi nella Seconda attraverso Berlusconi e Dell’Utri.

Palermo. Il Foto Italico dopo la ristrutturazione. Sopra: la cattedrale (foto Artribune)

Palermo è una delle metropoli più complesse e difficili del mondo, cosa anche questa che spesso viene dimenticata. Orlando è il sindaco più amato, più odiato e più osteggiato del secondo dopoguerra, ma anche in questo caso l’amnesia è fortissima. Amato dai suoi concittadini; odiato da certa classe politica di cui fanno parte ex andreottiani, ex craxiani, berlusconiani di lungo e di breve corso, sedicenti uomini di sinistra che quando devono combatterlo non esitano a convergere con i personaggi di cui sopra; detestato dai poteri forti come la mafia, la massoneria, l’imprenditoria corrotta, quasi tutta l’editoria italiana.

Orlando è ancora troppo “pericoloso” per un sistema che non dimentica. Uno che a quarant’anni viene considerato l’”uomo nuovo”, l’uomo capace di cambiare i destini della politica italiana attraverso la rottura (famoso l’aut aut: “Al Parlamento europeo o io o Salvo Lima. Io sono alternativo a Salvo Lima”), “deve” essere espulso dal sistema. E allora perché non lo hanno ucciso?, chiedono certi sapientoni che pensano che la legittimazione di un uomo debba passare attraverso l’omicidio.

Il personaggio era talmente popolare (lo è ancora, ma fra gli anni Ottanta e Novanta era all’apice) che la reazione dell’opinione pubblica probabilmente sarebbe stata veemente almeno quanto quella che c’è stata con l’assassinio di Falcone e Borsellino. Si preferì ucciderlo in modo soft, silenzioso, subdolo, facendolo sparire dai giornali e dalle televisioni. Non è un caso essere al settantunesimo posto nella classifica della libertà d’informazione.

La frase d’ordine fu: ignoriamolo, ma se dobbiamo parlarne parliamone male. E così, da un giorno all’altro, Orlando sparì. Ogni tanto Sgarbi nelle sue trasmissioni lo paragonava a Hitler (“Guardate, hanno lo stesso ciuffo. Se Hitler è stato capace di uccidere sei milioni di ebrei, pensate cosa sarebbe capace di fare Orlando”), le tivù del cavaliere gli preparavano le imboscate più incredibili, ma per essere dimenticato doveva soprattutto essere ignorato. Ancora oggi, in certi programmi, quando si parla della “Primavera di Palermo” si citano tutti tranne lui.

Palermo nel corso dei secoli è stata depredata, saccheggiata, violentata da dominazioni eterogenee che hanno influito nel carattere del suo popolo (portato all’accoglienza, all’ospitalità e all’arte di adeguarsi a qualsiasi traversia) ed hanno lasciato testimonianze artistiche, architettoniche e culturali di straordinario prestigio.

Leoluca Orlando

La città sconta ancora l’ultimo saccheggio – il peggiore della sua storia – perpetrato negli anni Sessanta da Vito Ciancimino e da Salvo Lima, sindaco ed assessore ai Lavori pubblici collusi con la mafia e quindi disposti ad accontentare gli appetiti famelici dei loro amici che in quel periodo, da miseri paesi della Sicilia, si trasferirono nella “capitale”. Per dare un’idea della devastazione di quegli anni, basta dire che in una sola notte furono rilasciate seimila licenze edilizie.

Con lo slogan “Palermo è bella, facciamola più bella”, la città fu riempita di immensi palazzoni che presero il posto dei giardini della Conca d’Oro e di decine di meravigliose ville liberty. Contemporaneamente furono costruiti quartieri osceni come lo Zen e il Cep, mentre nessuno pensava di risanare il centro storico che cadeva letteralmente a pezzi. Il Piano regolatore ne aveva previsto addirittura lo sventramento con una colossale cementificazione che lo avrebbe cancellato per sempre. Un disegno perverso bloccato negli anni Ottanta proprio da Orlando durante la sua prima sindacatura, quella della cosiddetta “primavera”, nella quale – con la regia dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, allora personaggio di punta della Dc d’opposizione, e di due sacerdoti illuminati come Ennio Pintacuda e Bartolomeo Sorge – i famigerati “comunisti” entrarono in giunta con l’estromissione degli andreottiani e dei socialisti del “nuovo corso” craxiano.

Salvo Lima e Vito Ciancimino

Un’operazione che concretizzava per la prima volta il disegno vagheggiato da Aldo Moro e da Piersanti Mattarella (di cui Leoluca, pochi anni prima, era stato consigliere giuridico), assassinati per avere rotto il tabù imposto da Washington negli anni della Guerra fredda: coi comunisti neanche un caffè. C’era da capirlo: per decenni il comunismo aveva annullato le libertà più elementari nei Paesi dell’ex Unione sovietica: la sua espansione in una Nazione geograficamente e politicamente strategica come l’Italia non poteva essere consentita dagli Usa. Palermo, in questo scacchiere, era fondamentale.

E però i “comunisti” italiani, quelli veri, quelli romantici, quelli battaglieri – al netto da certe ideologizzazioni e da certo consociativismo – erano altra cosa: erano quelli che avevano fatto la resistenza assieme ai cattolici e ai socialisti, avevano fatto (e facevano) la lotta alla mafia con decine di sindacalisti uccisi, con Girolamo Li Causi, con Pio La Torre, avevano attuato il clamoroso “strappo” con Mosca – auspice Berlinguer – conservando i valori di una sinistra moderna e riformista che si batteva per la questione morale, il lavoro, l’uguaglianza, la pace (clamorosa la protesta di La Torre, all’inizio degli anni Ottanta, contro l’istallazione dei missili Cruise a Comiso), la libertà d’informazione (non a caso Pasolini parlò del Pci come dell’”isola felice” della politica italiana).

Moro e Piersanti Mattarella sappiamo che fine hanno fatto. Orlando – candidato all’obitorio assieme a loro, almeno secondo le dichiarazioni dei pentiti – si salvò, perché aveva capito che solo alzando il tiro contro gli esponenti principali dell’ancien regime poteva farla franca e al tempo stesso operare un rinnovamento serio della politica.

Magari ai giovani che non hanno vissuto queste storie, e a quelli più grandicelli che soffrono di mancanza di memoria, questa ricostruzione potrà sembrare fantasiosa, ma le collezioni dei giornali parlano chiaro. Non c’era giorno in cui le prime pagine dei quotidiani e dei settimanali italiani (a volte anche stranieri) non sparassero titoli a nove colonne sui tremendi j’accuse di Orlando contro Andreotti, contro Craxi, contro Cossiga, contro la “mafia col volto delle istituzioni”. Un’opera di rottura netta, clamorosa praticata non dai banchi dell’opposizione, ma dall’interno di quella Democrazia cristiana che per cinquant’anni è stata garante degli equilibri del Patto Atlantico in Italia, in combutta con i ladroni di Stato, con i tangentisti e con i poteri più sporchi (dalla mafia dalla P2, dal terrorismo di destra ai servizi segreti deviati).

Palermo, piazza Magione dopo il recupero (foto Petyx, Palermo)

Orlando rappresentava “l’altra Dc”, quella che si ispirava ai valori del cattolicesimo democratico di Sturzo, di De Gasperi, di La Pira, di Moro, di Tina Anselmi, di Piersanti Mattarella. E bisogna dire che fra gli oppositori interni è stato il più intransigente e il più duro.

Da allora è stato osteggiato, calunniato, emarginato, malgrado sia stato definito un “fuoriclasse” non da un suo fan, ma dall’ex direttore artistico del Teatro Biondo di Palermo, Pietro Carriglio, andreottiano di ferro e quindi non sospettabile di apologia orlandiana.

Indubbiamente di motivi per parlar male di lui ce ne sono: è narcisista, accentratore, ha attaccato Falcone; non ha risolto il problema delle periferie, dei rifiuti e del traffico; alle ultime elezioni comunali si è alleato con Alfano e con Cardinale (ma anche con Rifondazione), ha aderito al Pd. Queste le critiche principali.

Che sia narcisista e accentratore non ci sono dubbi. Sulle polemiche con Falcone crediamo che debba essere la storia – fra cento anni – a fare giustizia. Troppi interessi ancora in gioco per potere giudicare senza l’influenza di certa informazione. Perché se è vero che sono trascorsi ventisei anni dalla strage di Capaci, è anche vero che i ricatti sotterranei – specie sulla Trattativa – sono talmente tanti che il potere non può permettersi un Orlando a Roma.

È vero, a Palermo c’è il problema delle periferie, dei rifiuti e del traffico, ma si tratta di emergenze talmente radicate che è impossibile risolverle in poco tempo con le sole risorse del Comune, senza un intervento regionale, statale ed europeo.

È vero anche il fatto che alle ultime amministrative, Orlando ha dialogato con Alfano e con Cardinale, cosa che abbiamo stigmatizzato più volte da questo giornale, così come è vero che alcuni giorni fa ha aderito al Pd, circostanza che ha fatto storcere il naso a più di una persona, noi compresi. Inutile parlare delle storture del Partito democratico: l’elenco sarebbe lunghissimo.

Sappiamo però – per avere scritto, qualche anno fa, un libro “a quattro mani” con lui – che Orlando le ha tentate tutte per costruire un nuovo movimento che partisse dall’esperienza dei sindaci e si proiettasse nella Società civile. Non c’è riuscito. L’adesione al Pd – secondo noi – va interpretata come una “mossa alternativa” sia per rompere l’isolamento, sia per tentare un rinnovamento della politica non solo da sindaco, ma da leader, oggi siciliano, domani chissà. Una leadership siciliana che, secondo i giornali, lui stesso al momento condividerebbe nel Pd con personaggi come Cardinale, Faraone e Sammartino, descritti così da Enzo Guarnera, uno dei fondatori, assieme a lui, della Rete: “Su Faraone – scrive Guarnera – ho poco da dire. Come maggiordomo di Renzi, tamquam non esset. Su Cardinale e Sammartino avrei da dire, e sono in attesa che vengano fuori le prove. Ma, su di essi, ho la consapevolezza morale di Pasolini”.

Parole dure, provenienti da una persona intellettualmente onesta, che con Orlando ha condiviso valori ed anni di politica. Guarnera ha ragione a criticare Orlando, ma ci sia consentito di fare un’eccezione almeno per lui. La storia di Orlando è una storia di coerenza e di sofferenza, di amore per la sua città e di prezzi pagati cari. Permetteteci, ma con Orlando non ce la sentiamo di usare la stessa intransigenza che usiamo perfino con noi stessi.

Lui ha dichiarato che contribuirà al “rinnovamento del Pd”. Staremo a vedere come finirà. Conoscendolo non crediamo che se ne starà con le mani in mano. Intanto andiamo a vedere Palermo.

Luciano Mirone