Un processo, quello sulla trattativa-Stato-mafia, che, da qualunque angolazione lo si voglia osservare, costituisce l’evento giudiziario più importante dell’ultimo decennio. Un processo che giunge alle sue battute finali con la requisitoria dei pubblici ministeri iniziata lo scorso 14 dicembre. Dalla prima udienza del 27 maggio 2013 si sono avvicendati oltre 200 testimoni, tra ex Presidenti del Consiglio, ex Ministri, il presidente del Senato, uomini politici di rilievo della Prima e della Seconda Repubblica, i più importanti Collaboratori di Giustizia, vertici e quadri delle forze dell’ordine e dei servizi segreti. E la testimonianza, raccolta «a domicilio» presso il Quirinale il 28 ottobre 2014, dell’ex Presidente Giorgio Napolitano, nonostante il forte pressing in senso contrario che si evince da molti articoli di fondo dei più importanti giornali italiani, su questo punto paradossalmente sulla stessa posizione di Salvatore Riina.

UN PROCESSO SCOMODO. Un processo che più scomodo ed avversato dall’establishment non poteva essere. Anzitutto perché a sedere sul banco degli imputati sono stati chiamati uomini delle Istituzioni, della politica e degli apparati, a rispondere del reato di minaccia o violenza a corpo politico dello Stato (art. 338 c.p.) insieme al vertice di Cosa nostra che solo formalmente – resta ancora da capire su suggerimento e con l’aiuto decisivo di chi – decise ed attuò la strategia “stragista” del ’92-’93: Nicola Mancino, Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno, Giovanni Conso (nel frattempo deceduto), Marcello Dell’Utri, Calogero Mannino (quest’ultimo ha optato per l’abbreviato ed è stato assolto in primo grado dal Gup Marina Petruzzella, ma la Procura ha fatto ricorso ed è in corso di svolgimento l’Appello).

Oscar Luigi Scalfaro, ex presidente della Repubblica. Sopra: i quattro Pm del processo Trattativa

IL RUOLO DI SCALFARO. E, come si è appreso proprio dalla requisitoria pronunciata dal Dott. Di Matteo lo scorso 11 gennaio, sul banco degli imputati si sarebbe certamente trovato anche l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Subito dopo la strage di Capaci – ricostruisce Di Matteo, avvalorato da molti elementi di prova – venne eletto il Presidente Oscar Luigi Scalfaro. Quel Presidente con le sue decisioni, con il suo attivismo politico ed istituzionale non solo è stato arbitro, ma è stato il principale attore anche in vicende che hanno segnato snodi nel dialogo tra Stato e mafia”.

Il prezzo pagato da magistrati e testimoni è stato finora, purtroppo, altissimo. Nino Di Matteo e i suoi colleghi sono stati costantemente attaccati per le loro scelte processuali, a partire da quella di non limitarsi a processare solo “mafiosi” pluriergastolani: molte scelte, del resto, sono state assai più intransigenti verso testimoni ed imputati eccellenti di quelle cui abbiamo potuto assistere nel contemporaneo processo “Borsellino quater”, dove al contrario il Presidente Antonio Balsamo ha accolto la richiesta di Napolitano di non deporre e ne ha revocato la testimonianza. I pubblici ministeri sono stati oggetto di gravissime minacce, a partire da Nino Di Matteo, il magistrato più esposto, e dall’inquietante vicenda del piano di attentato (che sarebbe ancora operativo) contro il magistrato con l’avallo di Salvatore Riina dal Carcere di Opera, di cui si conoscono perfino alcuni dettagli pratici.

I TESTIMONI SCOMODI. I principali testimoni sono stati vittime di una campagna di delegittimazione ancor più pesante. A partire dal teste-chiave Massimo Ciancimino, che con le sue dichiarazioni a partire dal 2008, senza trarre alcun beneficio, ha svelato scenari inediti ed ha messo in imbarazzo molti politici e uomini delle istituzioni, costretti a “farsi tornare la memoria”.

Anche un altro teste importantissimo, Saverio Masi – il Maresciallo dei Carabinieri che ha denunciato i suoi superiori  testimoniando al processo di essere stato ostacolato nelle sua attività volte alla cattura dei latitanti Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro – prima ancora che si accertasse la veridicità dei fatti da lui denunciati è stato rinviato a giudizio in tempi da primato per diffamazione.

Massimo Ciancimino da ragazzo con il padre Vito

LA STAMPA CONTROCORRENTE. Un processo scomodo, che per motivi facilmente intuibili la stampa sistematicamente nasconde, perfino in questo momento topico, fatta eccezione per poche testate come “Il Fatto Quotidiano”, “Antimafia Duemila” e qualche giornalista che ha seguito l’intera vicenda. E moltissimi cittadini che, nonostante tutti gli incentivi in senso opposto, continuano a pretendere una verità che lo Stato sembra non volere. Una situazione, quella della stampa relativa al processo trattativa Stato-mafia, più volte riscontrata, che non può non suscitare un serio allarme per la libertà di informazione nel nostro paese.

Senza però fermarsi allo stupore e alla conseguente indignazione per i troppi “non ricordo” cui abbiamo assistito, e per i tentativi di insabbiare l’aspetto pubblico della vicenda, è necessario ed utile anche mettere in luce i tanti fatti inediti emersi grazie alle indagini e a questo processo che, a prescindere dall’esito giudiziario, costituiranno delle pietre miliari imprescindibili nella ricostruzione storica di ciò che è accaduto nell’ultimo trentennio (almeno) nel nostro paese; con il rammarico che, se non ci fosse stata una simile potenza di fuoco nell’ostacolare la ricerca della verità, forse si sarebbe potuti arrivare molto più in fondo.

Il generale Mario Mori

CHI E’ MARIO MORI? Provare a rispondere davvero alla domanda su chi sia stato davvero Mario Mori in una storia che si dipana dai primi anni ’60 è fondamentale per provare a capire il suo effettivo ruolo nella “trattativa” con Vito Ciancimino raccontata dal figlio Massimo, e da Mori stesso parzialmente ammessa con una versione inverosimile fornita nel 1998 deponendo a Firenze, ma anche il ruolo giocato da Mori nella scena dell’antimafia a partire dalla fine degli anni ’80 ( si pensi, ad esempio alla vicenda mai del tutto chiarita definitivamente del disinnesco dell’ordigno trovato in occasione del fallito attentato a Falcone all’Addaura ad opera dell’artificiere Francesco Tumino, ora deceduto, che aveva rilasciato alla magistratura dichiarazioni non compatibili con quelle di Mori).

Tartaglia ha così descritto in aula il modus operandi di Mori: “È stato contro le regole quando era ufficiale di polizia giudiziaria ed anche venti anni prima, quando era nei Servizi segreti al Sid”.

La requisitoria è prevedibile che duri ancora molte udienze, a partire dalla prossima (giovedì 18 gennaio), e che tutti questi argomenti verranno ulteriormente analizzati e sceverati.

UN COLPO DI STATO SOFT. Quel che è certo che senza fare i conti, in un modo o nell’altro, con i fatti finora emersi e con la necessità di cercare la verità su quanto è accaduto nel recente passato della nostra storia repubblicana, a partire dallo spartiacque decisivo delle stragi del ’92-’93 (che potrebbero essere letti quasi come un “Colpo di Stato” in versione soft, secondo alcuni esperti sperimentazione di strategie di guerra psicologica non convenzionale tipiche di Stay Behind), difficilmente potremo capire il nostro presente e ciò che in esso opera ancora.

Un interesse vitale per tutti noi cittadini, a prescindere dall’ostentato dis-interesse della “grande” stampa nazionale.

Manfredo Gennaro