A un certo punto Giuseppe diventò Mario e volle riprendersi la vita. E da quel momento la vita cominciò a guardarla con gli occhi di Mario ed iniziò a pensare come avrebbe pensato Mario. Cercò i suoi articoli, diventò giornalista, prese l’abitudine di selezionare le fonti per fare delle belle inchieste. Diventare Mario era l’unico modo per ridare la vita a Mario, che l’aveva persa sotto i colpi della mafia la sera del 26 gennaio 1979 mentre Giuseppe aveva la febbre e aspettava che Mario tornasse dal giornale per giocare a nascondersi.

Giuseppe Francese. Sopra: Mario Francese

Papà, avevo quegli occhioni scuri quando bruscamente sei andato via. Ho ancora gli stessi occhi e con loro continuo a percorrere le impervie strade della vita. Senza di te, ma con te. Perché mi hai lasciato quella indelebile impronta. E così, con te dentro me, continuo a vivere mentre m’incontro e mi scontro con la vita.

Aveva dodici anni Giuseppe e la morte manco immaginava cosa fosse. La pioggia quella sera bagnava il loden verde che copriva Mario che era disteso per terra e nel frattempo Fabio e Massimo (Giulio era ancora al Diario) erano scesi in strada per capire cosa fosse successo. Alla fine seppero che quella persona con il volto sfigurato dalle pallottole e il loden verde inzuppato di pioggia era il loro padre. Da quella sera la vita di Giulio, di Fabio e di Massimo cambiò per sempre. Quella di Giuseppe si spezzò per sempre. Chi non ha vissuto un dolore del genere non può capire.

Avevo dodici anni quando ho sentito da casa quella tragica sequenza di colpi di arma da fuoco. Sei per l’esattezza. Da lì a poco scoprii che quei colpi avevano centrato il bersaglio e che il bersaglio era mio padre, il giornalista Mario Francese. Da quel tragico momento la mia vita è stata sconvolta, come se quel lugubre rosario di colpi avesse leso irrimediabilmente qualche punto nevralgico della mia esistenza. E man mano che crescevo, crescevano dentro di me, diventando sempre più grandi, un immenso vuoto e un’incredibile ansia di giustizia e di rabbia.

Giulio, Fabio e Massimo misero su famiglia e nella famiglia trovarono un valido motivo per andare avanti. Giuseppe restò in casa con la mamma, il diploma di ragioniere, il sax di Kenny G., le sonorità arabe, il sabato in comitiva a ballare il latino-americano, ogni tanto un’avventura con una bella ragazza, l’estate in giro per l’Europa col sacco a pelo e poi l’entusiasmante viaggio a Cuba. Ma da quella sera qualcosa dentro di sé si ruppe. Quando lo Stato approvò la legge che consentiva ai parenti delle vittime di mafia di avere un posto alla Regione, Giuseppe si impiegò in un ufficio pubblico. Erano trascorsi diversi anni dall’uccisione di suo padre. In Sicilia Cosa nostra ammazzava giornalisti, magistrati, uomini politici, poliziotti, carabinieri. Stranamente alle commemorazioni si facevano i nomi di tutte le vittime di mafia, ma quello di Mario Francese a volte veniva ignorato anche da molti colleghi giornalisti. Giuseppe sentiva qualcosa che gli macinava dentro, un misto di frustrazione, di impotenza, di pianto che riusciva a stento a trattenere. Chiudeva i pugni, inghiottiva saliva e continuava ad andare avanti. Poi imparò a conoscere anche di peggio: quell’immondo chiacchiericcio che bollava i familiari delle vittime di mafia come “categoria fortunata” per via del posto alla Regione. Un chiacchiericcio che serpeggiava proprio alla Regione, nel luogo dove la raccomandazione è sempre stata la regola.

Faccio parte di quella schiera di “fortunati” (almeno così ci considerano in tanti) che hanno avuto un posto di lavoro presso la pubblica amministrazione in qualità di orfani di vittime della mafia. “Categoria fortunata”. Sì, perché per entrare non abbiamo fatto alcun concorso, ma siamo stati assunti attraverso una legge nazionale. Ma c’è da chiedersi: quanti hanno fatto un concorso alla Regione? E quei pochi che lo hanno fatto non si sono rivolti a nessuno? I loro padri, magari: con le loro amicizie, a volte con le loro vere e proprie connivenze? Noi dobbiamo dire grazie solo ai nostri padri, morti da uomini in un mondo di “quaquaraqua”. E se gli altri sono invidiosi, fanno bene ad esserlo, perché pochi hanno avuto la fortuna di avere padri come il mio.

Scriveva racconti Giuseppe, un po’ per passione un po’ per sfogare le sue amarezze. Li scriveva e li chiudeva in un cassetto e ogni tanto li rileggeva. Diventò Mario nel 1995, a ventotto anni, quando un signore (Di Marco si chiamava) che ai magistrati aveva descritto perfettamente i collegamenti mafiosi degli ultimi decenni, cominciò a scrivergli delle lettere e poi, mediante amici comuni, riuscì a contattarlo. “La strada dell’omicidio di tuo padre parte da Corleone. Il suo delitto è da collegare con quello del colonnello Russo”. La chiave dell’assassinio era l’inchiesta sulla diga Garcia ma soprattutto il dossier non ancora pubblicato dal Giornale di Sicilia (sarebbe uscito dopo la morte del giornalista) in cui Francese aveva stilato la mappa inedita del crimine organizzato, l’ascesa di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, le nuove collusioni, i nuovi organigrammi, i nuovi affari dei corleonesi. Giuseppe ascoltava e annuiva. Quella sera percepì per la prima volta che per dare giustizia a suo padre doveva diventare suo padre. Per ottenere una verità processuale doveva fare come lui. Indagare. E collaborare coi magistrati per cercare pazientemente la verità. Due anni prima Cosa nostra aveva fatto saltare in aria Falcone e Borsellino. In Procura era arrivato Caselli. Da quel momento Giuseppe lavorò giorno e notte.

Mario Francese durante un’intervista

Passano tanti anni. Da allora sono accadute tante cose. Belle e terribili, tragiche e romantiche. La prima (quella terribile e tragica) è che Giuseppe dal 2002 non c’è più. La seconda (quella bella e romantica) è che il suo lavoro non è andato perso perché la cupola di Cosa nostra (Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca, Michele Greco) è stata condannata grazie al suo straordinario lavoro. Dopo il processo ha preferito andarsene con suo padre: “Missione compiuta”.

Una strada di Palermo circondata dai palazzi costruiti ai tempi di Lima e di Ciancimino. In una di queste strade abita Massimo Francese. Mi accoglie nel salotto assieme a Fabio. La prima cosa che mi colpisce è la foto di Giuseppe poggiata sul tavolo di vetro. E mentre Massimo e Fabio mi parlano, non faccio altro che fissare quel fotogramma e immaginare le scene descritte dai suoi fratelli. È un bellissimo ragazzo, Giuseppe, moro, aitante, capelli ricci, esuberante come suo padre. Nella foto si trova ad Eraclea Minoa, una delle più suggestive spiagge siciliane, e ha uno sguardo sognante.

In questa chiacchierata si parla di tante cose: le gite ad Aspra con tutta la famiglia e le battute di papà che Giuseppe ripeteva sempre, i viaggi a Campofiorito con la macchina sgangherata, la strada di campagna, e dopo Corleone si verificava il miracolo di arrivare nel paese di mamma con il motore semifuso. Avventure incredibili, un entusiasmo che contagiava tutti.

“Papà scherzava sempre. Quando eravamo bambini ci diceva di andare nell’altra stanza per metterci nelle posizioni più disparate: ‘Scommettiamo che indovino come siete messi? Dovete chiedermi in dialetto: ‘Papà, come sugnu misu?’. Noi scappavamo in camera e ad alta voce: ‘Papà, comu sugnu misu?’. E lui: ‘Comu nu strunzu tisu tisu’ “.

“Giuseppe lo aveva idealizzato. Fra tutti i fratelli, essendo il più piccolo, è stato quello che ha risentito maggiormente del colpo. Noi la fase pre adolescenziale l’avevamo superata, lui proprio allora si affacciava alla vita. Negli anni successivi non ha cercato un assetto affettivo serio. Aveva delle relazioni sentimentali che duravano poco tempo e poi finivano, sentiva di non potersi impegnare costantemente perché aveva questa missione da compiere”.

“Il suo rammarico era quello di non potere riuscire a far capire agli altri il profondo dolore che si prova quando si perde un familiare in quel modo. Percepiva questo come una profonda ingiustizia. Diceva sempre: mio padre non è morto per una cosa banale, è morto perché era al servizio della verità, al servizio di tutti. E alla Regione invece di esprimermi solidarietà, dicono che faccio parte della categoria dei fortunati. Sentiva sulla sua pelle questa sorta di ostilità. Una volta in un ristorante si scagliò contro uno sconosciuto il quale diceva che Carmine Mancuso, ex presidente del coordinamento antimafia, aveva fatto carriera politica approfittando dell’uccisione del padre. ‘Lei non deve permettersi di dire queste cose. Che ne sa del dolore che si prova quando un padre viene ucciso in quel modo?’ La morte causata da una fatalità riesci ad accettarla, fa parte della vita. La morte violenta ti fa capire cos’è la cattiveria dell’uomo contro l’uomo. Quando vedemmo papà per terra, in quella pozza di sangue, dicemmo: ‘Ma cosa ti hanno fatto? Perché lo hanno fatto?’. Non riesci a fartene una ragione. È una ferita che resterà per sempre”.

“Dopo l’incontro con Di Marco, in Giuseppe scattò qualcosa. Fare giustizia su nostro padre era diventata la sua ragione di vita. Per mesi si chiuse in biblioteca per cercare gli articoli di papà. Di mattina il lavoro alla Regione, di pomeriggio l’attività giornalistica”. Che successivamente sfoceranno nelle proficue collaborazioni con Repubblica, L’Inchiesta e Antimafia Duemila.

“L’indagine sul delitto di papà era stata archiviata diversi anni prima. Stilammo un promemoria e richiedemmo ufficialmente la riapertura del caso. Tutta la famiglia fu coinvolta, ma il vero motore fu Giuseppe. Ogni giorno andava a bussare negli uffici dei magistrati. Fino a quando uno di questi, la dottoressa Enza Sabatino, gli prestò attenzione. Lo accolse, lo ascoltò, lo prese in seria considerazione. Poi la Sabatino fu trasferita e l’incartamento passò a Laura Vaccaro”.

Mario Francese intervista la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella nei corridoi del Tribunale di Palermo

“Durante il processo venne fuori che Michele Greco detto il Papa era in rapporti con l’editore Federico Ardizzone, proprietario del Giornale di Sicilia. Alla fine degli anni Settanta, però, in coincidenza dell’avvento dei corleonesi, la testata aveva deciso una linea di rinnovamento impersonata da Lucio Galluzzo e da Lino Rizzi, i quali, per questo, si appoggiarono alla conoscenza di Mario Francese”.

“Qualcuno si rivolse agli editori per fare cambiare linea a papà. Dobbiamo tener presente che la sede del giornale è ubicata nello stesso pianerottolo dove abitava il boss Spataro, capomafia della Kalsa. Questo per far capire come il condizionamento nei confronti della testata fosse anche fisico. La morte di papà, secondo i pentiti, era stata decisa due anni prima. Non era stata messa in atto perché ancora non c’erano le condizioni politiche all’interno della commissione. Quando nel ’78 i corleonesi presero il sopravvento decisero definitivamente che Francese doveva essere eliminato”.

“In quel momento non ci fu solo una guerra fra i perdenti e i vincenti. C’era una guerra parallela e sotterranea anche all’interno delle istituzioni vicine a Cosa nostra. C’era chi si era schierato con l’una e chi con l’altra fazione. Il processo, se letto bene, è un processo storico in quanto mette a nudo delle verità straordinarie che papà aveva denunciato già alla fine degli anni Settanta”.

“Giuseppe riuscì a trasmettere entusiasmo anche ai magistrati. Nelle giornate che precedevano il processo era preso da una grande smania. La domenica poi,  quando la mamma rimaneva da sola, veniva colto da una specie di rimorso per non averle fatto compagnia. La prendeva e la portava da noi. Lo vedevamo sempre in ansia. Stava cinque, dieci minuti, si mangiucchiava le dita, in attesa di andare a fare il suo dovere”.

“Sicuramente questa ricerca ha riaperto delle ferite antiche. Giuseppe a questo lavoro dava una grande importanza: secondo lui avrebbe cambiato le cose, avrebbe fatto maturare consapevolezza nelle persone. Durante il processo si sedeva vicino ai legali di parte civile e a volte suggeriva le domande da porre”.

“Quando i componenti della cupola furono condannati, disse: ‘Finalmente il mio compito è finito’. Sul momento non capimmo. ‘Ho consegnato la verità’. Ma sembrava quasi che la gente fosse indifferente a tutto. Il suo entusiasmo progressivamente si spense. L’ultima volta che lo vedemmo fu il giorno prima della sua morte, sotto casa. Portava a passeggiare il suo cane, un bastardino che tempo prima aveva trovato per strada. Stava male, aveva un senso di vuoto assoluto. Avrebbe compiuto trentasei anni la settimana successiva”. Lui, Giuseppe Francese, il nono giornalista ucciso in Sicilia.

Luciano Mirone

(tratto da Gli insabbiati. Storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall’indifferenza – Castelvecchi editore)