Una calligrafia infantile. Tante idee, tante ingenuità, tanti pensieri. Cancellati e modificati. Ma soprattutto tanti valori ed un alto senso di giustizia. Questo emerge dal tema di quinta elementare (una brutta copia) di Nino Agostino, l’agente di polizia trucidato il 5 agosto 1989 a Palermo, a soli ventotto anni, assieme alla sposina Ida Castelluccio. Un tema che i familiari hanno ritrovato casualmente nei giorni scorsi e pubblicato su fb. Appunti presi con una biro blu su un foglio di carta protocollo a righe utilizzato per i compiti in classe, che bisogna leggere.
È il 1971. Nino ha dieci anni, eppure parla con disagio dell’”ultimo decennio”, quasi con sofferenza, malgrado l’età. Lui quel decennio lo ha vissuto giocando, ma nella sua ingenuità riesce a vedere quello che molti “grandi” non vedono: un’Italia e un mondo che stanno cambiando, un’Italia e un mondo in cui “le manifestazioni di violenza sono arrivate a un livello impressionante”: da un lato, come scrive lui stesso,“la criminalità e la violenza politica estremistica sono andate man mano aumentando ”, dall’altro un’opinione pubblica “quasi indifferente” malgrado le notizie date ogni giorno dai giornali, che evidentemente Nino interiorizza. Ecco allora l’uso di termini come “violenza”, “criminalità”, “morti ammazzati”, “lupara bianca”, “scomparse di persone”. Una fotografia della società di quegli anni che mostra i primi segni della patologia, ma che in futuro sarebbe diventata anche peggio.
Quella descritta da Nino non è la criminalità che in quel caldissimo giorno di agosto dell’89 avrebbe falciato lui, la moglie e il bimbo che lei portava in grembo da un mese: secondo quanto emerge dalle indagini, il poliziotto stava indagando sugli autori del fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura. Il magistrato antimafia doveva morire tre anni prima di Capaci: per questo assassinio da commettere attraverso cinquantotto candelotti di dinamite nascosti in un borsone fra gli scogli della villa al mare di Falcone, ci sarebbe stata una mobilitazione in grande stile, compresi certi apparati dello Stato – servizi segreti deviati – che Nino Agostino (componente della scorta del magistrato) conosceva bene, e che il padre Vincenzo ha dichiarato di riconoscere in Giovanni Aiello, alias Faccia da mostro, l’ex poliziotto morto alcuni mesi fa, accusato di essere un agente dei servizi segreti coinvolto in diversi omicidi eccellenti.
No, quello che Nino descrive con candore nel tema non è lo schifo che avremmo visto nei decenni successivi, ma basta proseguire nella lettura per capire cosa ha capito questo bambino fin da allora. Ci sono frasi da brividi come queste: “Il potere occulto della mafia che ha diramazioni tali da far tremare le fondamenta di un grattacielo”, o il “potere occulto della criminalità spicciola all’appoggio politico al parlamento”. Poche righe per comprendere davvero il motivo per il quale, molti anni dopo, Nino Agostino si sarebbe arruolato in Polizia.
E badate: siamo ancora nel ’71, quando pochissime istituzioni – tranne la commissione parlamentare antimafia, il partito comunista e il quotidiano “L’Ora” di Palermo – parlano delle collusioni fra mafia e politica. Magari il tema sarà frutto di certi discorsi sentiti in famiglia (pensiamo noi), ma è stupefacente vedere come Nino abbia introiettato certi concetti e li abbia fatti propri.
Ma non è tutto. Il bambino va oltre. E trova la causa dei mali che affliggono la società nel “denaro come (valore) assoluto”, denaro come “segno di distinzione sociale e di emancipazione”, poiché “oggi molti uomini, spesso giovani, si trovano in una crisi interiore profonda perché hanno posto come assoluto nella loro vita il denaro”. Ma alla fine trova la sintesi nella speranza: “Esiste una parte di società che rifiuta la criminalità e propone ideali di giustizia e di libertà, un modo di vivere cristiano, un modo che” attraverso “la parola di Cristo” diventi “esempio e modello per gli altri”.
Luciano Mirone
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