“Le persone anziane ricordano il vecchio paese come una cosa meravigliosa, come l’Eden. Tutto quello che non ritrovano nel nuovo è perché lo confrontano col vecchio: la dimensione della piazza, la vita nei cortili, i rapporti coi vicini, i litigi. Fino al 1968, anno del terremoto, Poggioreale contava duemilaottocento abitanti. In questo mezzo secolo il paese si è spopolato. Mille poggiorealesi sono emigrati in Australia perché sono rimasti senza casa e senza lavoro. Si sono stabiliti a Drummoyne, hanno fondato una comunità. Vivono col perenne ricordo del loro paese”.

La nostra guida continua a parlare camminando assieme a noi nel corso principale di Poggioreale, uno dei pochi paesi al mondo che, pur non essendo stato raso al suolo dal terremoto, è stato completamente spopolato.

Poggioreale in un giorno di festa prima del terreoto del 1968

Quello che non si capisce è il motivo per il quale – malgrado i gravi danni causati dal sisma – invece di ristrutturare il paese ridandogli l’identità di sempre, la politica abbia deciso di ricostruire Poggioreale tre chilometri più a valle, in un terreno franoso e pieno di falde acquifere.

Da lontano si sente il belare delle pecore. Un belato primordiale, tangibile, segno che fra il paese e la campagna non ci sono confini: tutto è fermo al Sessantotto. La mutazione antropologica che avrebbe stravolto le coscienze di migliaia di siciliani, nella Poggioreale antica non esiste. Qui tutto è rimasto come pietrificato. E in fondo è giusto che questo paese oggi appartenga agli uccelli.

L’ultimo mezzo secolo, in fondo, possiamo misurarlo con la distanza che intercorre fra la vecchia, la nuova Poggioreale e gli altri centri della Sicilia: fino agli anni Cinquanta il sangue versato da queste parti da contadini, sindacalisti, capilega per le terre incolte e per un futuro più dignitoso da assicurare ai figli fu davvero tanto. Poi cambiò tutto. La Democrazia cristiana di Andreotti e di Lima prese il sopravvento; la corruzione e l’illegalità cominciarono ad allargarsi alla società civile, l’emigrazione causò uno spopolamento di intelligenze di dimensioni epocali. La strage di piazza Fontana del 1969, assieme alle altre stragi e ai delitti eccellenti, completò l’opera. Non è facile spiegare. La dimostrazione plastica del cambiamento dell’Italia è questa ricostruzione oscena realizzata in diversi centri della Valle, il fiume di danaro pubblico sperperato per delle cose inutili e finito nelle tasche di pochi, le decine di morti ammazzati per l’affidamento di appalti e subappalti a Cosa nostra. Qui la linea di demarcazione fra il “prima” e il “dopo” è il terremoto del 1968. Che in fin dei conti è solo un pretesto per dimostrare che le lucciole – come diceva Pasolini – stavano davvero scomparendo allora e nel frattempo stavano nascendo dei mostri di cui non siamo più riusciti a liberarci: basta vedere l’orrenda cementificazione che ha seppellito l’Italia e le devastazioni e le vittime che si sono registrati nei decenni successivi.

Poggioreale. Piazza Elimo oggi

“In paese c’era anche un piccolo albergo: vi pernottavano le compagnie teatrali del continente, alcuni rappresentanti di commercio e qualche danaroso signore che desiderava acquistare un terreno”.

Dopo aver percorso la via principale, si giunge in un luogo ampio, luminosissimo, che domina la vallata. Nel corso degli anni la natura ha coperto molte cose, l’edera ha invaso i muri, il vento e la pioggia hanno levigato i cornicioni e anche gli scalini e i capitelli delle chiese; l’erba e i fiorellini di campo sono spuntati fra le pietre.

Sul marmo resiste una scritta: piazza Elimo. Ed è a questo punto che le emozioni si intrecciano inevitabilmente col mito. Elimo – secondo la leggenda che si intreccia con la storia – era un principe troiano che nel 1184 avanti Cristo, scampato alla distruzione della sua città, trovò rifugio in Sicilia e con Enea, prima che questi partisse alla volta del Lazio per edificare Roma, fondò la città di Elima, sorta assieme alla vicina Segesta per dare ospitalità ai profughi provenienti da Troia.

L’antica città di Elima si trova più a monte, ad appena due chilometri da qui. Da lì, quando le condizioni atmosferiche lo consentono, si vedono ventiquattro paesi e il mare. Un paesaggio unico.

C’è una sensazione di vita e di morte camminando per la vecchia Poggioreale. Sembra che il tragico destino del popolo troiano si fosse abbattuto in modo funesto sulle stirpi del ventesimo secolo, che le maledizioni di Didone non avessero colpito Enea, ma i discendenti della sua città attraverso un evento tragico come il terremoto.

Piazza Elimo prima del terremoto

“Nella chiesa antica”, prosegue la nostra guida, “c’era l’ossario delle famiglie più in vista. Quando eravamo bambini, per gioco, venivamo a cercare le ossa. Ci sono persone che a casa ne possiedono intere collezioni”.

“Quando andammo a vivere nelle baracche, tutto apparteneva a tutti, non c’era il concetto della proprietà. Fra le seicentocinquanta famiglie di Poggioreale che vi risiedevano esisteva una grande solidarietà. Si viveva in dimensioni molto piccole, soltanto uno strato di lamiera ti divideva dal vicino. Con la strada c’era un rapporto bellissimo. In baracca abitavamo tutti, ricchi e poveri, colti e analfabeti, un livellamento delle classi sociali che non ho ritrovato in nessun’altra parte”.

Ci sediamo su un sasso erratico posto al centro di piazza Elimo. Una leggera brezza accarezza le colline verdi che improvvisamente diventano scure per il passaggio di una nuvola. La campagna è coltivata a frumento, laggiù ci sono i vigneti, sparsi qua e là degli alberi. Dietro la piazza l’altro magnifico abbeveratoio.

L’antico abbeveratoio

Mentre ci alziamo per andar via, da lontano scorgiamo un signore che, dal corso principale, avanza a passo spedito verso la piazza. Ha il volto scavato, una coppola nera e due occhi buoni. Potrà avere una settantina d’anni. Dice: “Da cinquant’anni, quando arriva la primavera, vengo quasi ogni giorno nel vecchio paese, da quando mi sono trasferito nel nuovo soffro di una terribile emicrania, come succede a molti compaesani che, come me, risiedevano nel vecchio centro. È l’umidità, ha detto il medico. Ora io, parlando con onestà, non so se è l’emicrania o la nostalgia, fatto sta che quando vengo qui il mal di testa scompare. Vengo sempre nel pomeriggio, mi siedo sui gradini della chiesa e ascolto il silenzio. Quando il sole tramonta e la luce si smorza, comincio a vedere delle ombre che si aggirano per il paese. Lo so che è suggestione, ma a me piace immaginare che ci siano delle persone. Poi, a poco a poco, mi sembra di risentire il vocio della piazza, le interminabili discussioni che si facevano tutte le sere, i nobili davanti al loro circolo, i contadini di fronte al loro. E mi sembra di riassaporare certe sensazioni… Le serate d’estate, gli odori della campagna, la festa del patrono nella chiesa antica e la processione per tutto il paese. È come se, dopo il terremoto, la mia anima si fosse staccata dal corpo e fosse rimasta qui, in mezzo a tutte queste pietre. Io torno sempre fin quassù per farla ricongiungere col corpo”.

Il sole, diventato rosso, si nasconde lentamente dietro le colline. Il vecchio si siede sui gradini della chiesa e resta solo. I resti dell’antica Elima si intravedono appena.

Ci rimettiamo a camminare percorrendo la via che scorre parallela al corso principale. Le prime ombre della sera prendono il posto della luce. In questa via c’è ancora l’insegna del vecchio panificio e di fronte c’è la macelleria con i ganci dove venivano appesi i quarti di capretto e di agnello.

Arriviamo in un vecchio palmento. Qui i contadini nel periodo della vendemmia portavano l’uva con i carretti. Entriamo. Ancora ci sono i tini, le vasche di pietra, i canali nei quali scorreva il mosto. Ci avviamo verso l’uscita del paese. Da lontano si scorge la piazza. Il vecchio signore è ancora lì, immerso nelle sue fantasticherie. Nell’aria un senso di eternità.

Luciano Mirone

3^ puntata. Fine