Avevano ragione i Cinque Stelle: “Pd e centrodestra sono la stessa cosa”. E chi finora ha creduto il contrario è stato soltanto un povero illuso. È dall’inizio del Duemila che in Sicilia si assiste al maxi inciucio fra il partito di Renzi e gli ex governatori Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, entrambi alle prese con problemi di mafia molto seri. Certo, in quel caso c’era l’”alibi” dell’alleanza con il “centro” (parola ambigua che significa tutto e il contrario di tutto), ora è saltato anche quello, perché da sabato il Pd – con l’auspicio del ministro allo Sport, Luca Lotti, e il silenzio del segretario nazionale Matteo Renzi, almeno secondo quanto si è scritto ieri – è la stampella ufficiale della tanto vituperata destra composta da ex missini, più Salvini, più Meloni, più gli altrettanto vituperati Dell’Utri (in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa) e Berlusconi.
La votazione di Gianfranco Miccichè alla presidenza dell’Assemblea regionale siciliana è una prova solidissima di quanto dicono i 5 Stelle. Al coordinatore regionale di Forza Italia mancavano i voti necessari per diventare presidente, perché un pezzo della sua coalizione evidentemente non lo voleva. Alla prima e alla seconda votazione i numeri non c’erano e Miccichè era rimasto al palo. Alla terza ecco che improvvisamente sono spuntati quattro voti provvidenziali che lo hanno portato sullo scranno più alto di Palazzo dei Normanni. Secondo alcuni è “restaurazione”. Secondo noi è peggio. Non che nella legislatura passata ci fossero stati esempi di rottura con certe pratiche, ma sentire il neo presidente che elogia Dell’Utri (“Pensare a Dell’Utri mi fa male, nei suoi confronti c’è una grande cattiveria. Per una persona come lui questo è inaccettabile”), o sentirgli dichiarare di non volere ridurre gli “stipendi d’oro” dei dipendenti regionali (il segretario generale è arrivato a guadagnare 400mila euro l’anno), fa una certa impressione.
Ma fa più impressione (anzi, più che impressione, orrore) assistere alla mutazione genetica di un partito – il Pd – che discende dalle nobili tradizioni del cattolicesimo democratico di Sturzo, De Gasperi e Piersanti Mattarella e dalle altrettanto nobili tradizioni della sinistra antifascista e antimafia di Gramsci, Berlinguer, Pertini e La Torre. Fa impressione, per chi ha sempre creduto che fra destra e sinistra la differenza fosse abissale, specie da quando Berlusconi ha bevuto “l’amaro calice” (1994), assistere ad una omologazione e a una cancellazione dell’identità culturale di un partito che con Prodi nel 1996 (ricordate l’Ulivo?) portava avanti alcuni valori – alcuni – dei Padri fondatori. Poi è stata la catastrofe.
L’elezione di Miccichè in Sicilia è la prova tecnica di ciò che avverrà alle prossime elezioni nazionali, quando pur di non far vincere il M5S, assisteremo alle “larghe intese” di cui, statene certi, fino al giorno prima, Renzi e Berlusconi smentiranno l’esistenza, come già oggi Lotti e Miccichè smentiscono l’inciucio promosso nell’Isola. A trarre vantaggio sarà l’ex cavaliere, per il quale questo abbraccio avrà l’effetto benefico di chi potrebbe tornare da vincitore a Palazzo Chigi (anche come semplice “eminenza grigia”, per le note vicissitudini giudiziarie che non gli permetteranno di candidarsi). A uscire a pezzi, come è successo alla recenti elezioni in Sicilia, sarà il Pd di Renzi, per il quale si presagiva da tempo una fine ingloriosa. Ma non fino a questo punto.
Luciano Mirone
Mai come in questo caso non mi soddisfa affatto poter dire avevamo ragione, troppo amaro e frustrante vedere realizzato ciò che paventavamo
Io non mni meraviglio di questo, si era già capito in campagna elettorale. L’importante che il “giocattolo” resti nelle loro mani, poi un accordo si troverà.