La prima cosa che salta agli occhi è il consistente calo del Partito Democratico, che perde quasi 7 punti (per la precisione 6,8) rispetto a inizio gennaio. Un vero e proprio crollo, che si è accompagnato a quello degli alleati di governo di Alternativa Popolare (recentemente dissoltasi dopo il ritiro di Alfano) ridotti a un terzo del loro consenso iniziale (da 3,6 per cento a 1,2). Non sorprende quindi che l’area di governo (corrispondente all’odierna coalizione di centrosinistra) si sia sensibilmente ridotta, passando dal 34,5 al 27,9 per cento.

L’ex presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, segretario del Pd

Dove sono andati questi voti? Essenzialmente in due direzioni: da un lato, verso Forza Italia, che chiude il 2017 con il miglior dato annuale, un 15,8% che vuol dire oltre 3 punti in più rispetto a inizio anno, un aumento avvenuto non a scapito degli alleati di centrodestra (Lega e Fratelli d’Italia) bensì contestualmente a una loro crescita, seppur più contenuta; dall’altro verso sinistra, con la scissione dei bersaniani che prima hanno formato Articolo 1 – MDP e poi si sono uniti a Sinistra Italiana e ad altre formazioni nel nuovo soggetto guidato da Pietro Grasso, Liberi e Uguali: se a inizio anno SI stentava a raggiungere il 3 per cento, oggi LeU vale quasi il 7, più del doppio. Sostanzialmente fermo è rimasto invece il Movimento 5 stelle, partito intorno al 28,2% e arrivato a fine anno con un saldo leggermente negativo (meno 0,7 per cento).

Ma non bisogna pensare che gli sviluppi appena descritti abbiano avuto un andamento lineare nel 2017. Vi sono stati invece dei periodi di sostanziale “immobilismo” e passaggi cruciali che hanno innescato (o comunque accompagnato) forti accelerazioni di tendenze.

Da dove arriva il calo del Partito democratico? L’anno è iniziato nel segno di una “stabilità precaria”: dopo il terremoto di fine 2016 (la sconfitta di Renzi al referendum costituzionale e le conseguenti dimissioni, con l’insediamento del governo Gentiloni) il PD si è mantenuto per un po’ sopra il 30%, seguito a breve distanza dal M5S. il centrodestra sembrava tagliato fuori dai giochi, anche perché fino alla sentenza della Consulta (fine gennaio) era ancora in vigore l’Italicum, che prevedeva un ballottaggio tra le prime due liste per il premio di maggioranza alla Camera.

Silvio Berlusconi

Dopo quella sentenza, la scelta di Renzi di convocare il congresso e di ripresentarsi perla segreteria causa la scissione: Bersani, Speranza e altri lasciano il PD, nasce MDP (che nei primi tempi sfiorerà il 4-5%) e inizia il primo, forte calo dei democratici, che scendono a sfiorare il 25%. Poi però si entra in periodo congressuale e il PD risale, fino a tornare testa a testa con il M5S a maggio, quando Renzi è appena stato (ri)eletto segretario nonostante un fortissimo calo della partecipazione della “base” alle primarie.

Tutto cambia con le amministrative di giugno. Si arriva così a giugno, e ad un altro, importante momento chiave: le amministrative, che vedono una netta vittoria dei candidati sostenuti da coalizioni di centrodestra. Non solo il PD ma anche il M5S accusano il colpo, e iniziano pian piano a calare mentre riprendono quota i partiti di centrodestra, con la Lega di Salvini che sembra candidarsi a un ruolo di leadership nella coalizione sfiorando il 15%. Seguono mesi di “calma piatta”, con la legislatura che si trascina più per le difficoltà di approvare una nuova legge elettorale (necessaria per andare al voto) che per un’effettiva volontà di arrivare alla scadenza naturale. Poi, però, arrivano le elezioni siciliane.

Luigi Di Maio, leader del M5S

Una cosa è certa: per il Pd la strada è dura. E, come già nel 2012, le regionali in Sicilia causano un piccolo “terremoto”: l’accordo Salvini-Berlusconi regge, la coalizione di centrodestra vince con Musumeci e il M5S, che alcuni davano per grande favorito, ne esce sconfitto. La “nomina” di Di Maio a candidato premier sembra non aver sortito alcun effetto. Ma la sconfitta più grande è quella del PD, il cui candidato arriva terzo, lontanissimo dalla vetta: la disfatta del centrosinistra è dovuta anche – ma non solo – alle divisioni. Sul piano nazionale sembra emergere un “nuovo bipolarismo” (confermato anche dalle elezioni municipali a Ostia): da un lato il centrodestra, dall’altro il M5S, con il PD relegato al ruolo di terzo incomodo.

E i sondaggi registrano gli effetti di questa percezione dell’opinione pubblica: i democratici scendono per la prima volta da molti anni sotto il 25%. Ma la politica non sta ferma: grazie a un ampio accordo, si approva finalmente una nuova legge elettorale, che incentiva le coalizioni e restituisce una (seppur vaga) speranza di vincere e ottenere una maggioranza. Berlusconi ritorna sulla scena e restituisce a Forza Italia la palma di primo partito della coalizione. Ma se a destra le elezioni siciliane hanno mostrato la via dell’unità, a sinistra non sembrano aver imparato la lezione: MDP lascia ufficialmente la maggioranza e si unisce a Sinistra Italiana in Liberi e Uguali, che con Piero Grasso leader “rosicchia” ancora alcuni consensi al PD di Renzi, abbandonato anche da Alfano e Pisapia.

Pietro grasso, presidente del Senato

Il 2017 si chiude con la fotografia di un “tripolarismo imperfetto”: un centrodestra nettamente prima area politica, con M5S e PD a giocarsi la seconda posizione, staccati di diversi punti.

Ancora due mesi ci separano dalle elezioni e tutto può ancora accadere (basta ricordare cos’è successo nel 2013), ma le ultime vicende sulle banche e sullo ius soli non sembrano aver invertito la rotta, anzi. Per il PD di Renzi (e Gentiloni) la strada si preannuncia tutta in salita.

Agi