Dunque Marcello Dell’Utri ha buone possibilità di essere scarcerato e di farsi una galera molto più ridotta rispetto ai sette anni ai quali è stato definitivamente condannato con la gravissima accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Nei giorni scorsi ci avevano tentato i suoi legali a togliergli le castagne dal fuoco presentando un’istanza per “gravi motivi di salute” rigettata dai magistrati. Adesso gli stessi avvocati tentano la carta della Corte di giustizia europea che, qualche tempo fa, ha dichiarato illegittima la sentenza con la quale l’ex funzionario dei servizi segreti Bruno Contrada è stato condannato per lo stesso reato. Dunque – è il ragionamento dei giureconsulti dellutriani – se per l’ex vice capo del Sisde è stata applicato questo principio, anche per il fondatore di Forza Italia deve essere applicato il criterio analogo. Se questo dovesse avvenire, per il braccio destro di Berlusconi le porte del carcere potrebbero spalancarsi. Il fatto non ci meraviglierebbe, e ora spiegheremo perché.
Complicato spiegare i bizantinismi giuridici che potrebbero portare a questo epilogo. Ma la cosa funziona più o meno così: se i tuoi rapporti con Cosa nostra sono stati dimostrati fino a una certa data sei colpevole, sennò sei improvvisamente diventato un santo.
Per Andreotti è stato così. Per lui l’associazione mafiosa è stata provata fino al 1980. Dopo, pur essendoci numerosi elementi di un rapporto con Cosa nostra (basta citare i suoi intrecci perversi con Salvo Lima e con i potentissimi cugini di Salemi, Nino e Ignazio Salvo), non è stata trovata “la pistola fumante” che lo inchiodasse di fronte alle sue responsabilità, quindi niente galera, anche se proprio in quell’anno veniva ucciso l’ex presidente della Regione, Piersanti Mattarella. Andreotti addirittura era presente al summit mafioso nel quale Stefano Bontate – che intanto intesseva i suoi rapporti d’affari con Dell’Utri e Berlusconi – aveva deciso l’eliminazione del simbolo del rinnovamento democristiano. Anni dopo, gli stessi magistrati, avrebbero scritto che invece di denunciare quel piano di morte, l’ex premier ha utilizzato per tanto tempo i voti e i servigi di Cosa nostra per aumentare il suo potere all’interno della Democrazia cristiana e della politica italiana. E quindi? Quindi niente. Troppo lontano quel 1980 per poter parlare di galera, come se il tempo trascorso rappresentasse il viatico per vanificare un reato imperdonabile come questo. Dunque prescrizione, con l’immancabile salotto da Bruno Vespa, la santificazione immediata e la morte nel suo letto, assistito dai suoi cari, quando ormai il politico più chiacchierato della storia d’Italia raggiungeva i novant’anni. Oggi chi parla più di Andreotti? Pace all’anima sua.
Per Dell’Utri potrebbe succedere la stessa cosa, anche se l’impianto giurisprudenziale che potrebbe decretarne l’uscita dal carcere è diverso rispetto a quello applicato per Andreotti. Ma in questi casi gli impianti normativi sono relativi: la costante che periodicamente viene propinata fra le pieghe del “diritto” e del “garantismo” contro il “giustizialismo” è il tempo. Nel caso di Andreotti era l’80, in quello di Dell’Utri è il ’94. E siccome i legami del fondatore di Forza Italia con Cosa nostra sono stati dimostrati fino al ’92, ecco che per lui potrebbe spianarsi un formidabile salvacondotto che porterebbe l’ex cavaliere a tirare un sospiro di sollievo. Del resto, Dell’Utri è meglio averlo fuori che dentro. Per tante ragioni. E poi a Natale siamo tutti più buoni.
Luciano Mirone
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