Tutte le verità di cui era depositario, Totò Riina se l’è portate nella tomba. Verità che non possono essere rivelate, sennò lo Stato imploderebbe immediatamente, come un grattacielo costruito sulla stessa sabbia che dal dopoguerra è servita a coprire l’ignobile patto con l’Antistato, a cominciare dallo sbarco degli anglo americani nelle coste della Sicilia. Una vita, quella di Totò ‘u curtu spesa per lo Stato e con lo Stato, bisogna ammetterlo. Se non fosse stato per lui, per Liggio, per Provenzano, per Santapaola, per Bontate, per Navarra, per Badalamenti l’Italia avrebbe svoltato a sinistra dal ’47, anno della strage di Portella della ginestra, quando i “rossi” del Blocco del popolo (socialisti più comunisti) vinsero le elezioni  in Sicilia e si apprestavano a vincerle nel resto d’Italia. E questo – mentre era in piedi il Muro di Berlino – non potevamo permetterlo.

Fu il prezzo che l’Italia pagò per essere stata liberata dall’esercito più sanguinario della storia. Debito altissimo. Che paghiamo ancor oggi e che ci eravamo illusi di estinguere quando, nel 1989, in Germania crollò il Muro. Non è così. Quel debito continueremo a pagarlo chissà per quanto: si chiama ricatto. E coinvolge pezzi deviati delle istituzioni: il mafioso che ricatta il politico, che ricatta il magistrato, che ricatta i servizi segreti, che ricatta il massone, che ricatta il funzionario di polizia, che ricatta l’ufficiale dei carabinieri. E viceversa. Tutti ricattano tutti e siccome non vogliono finire in galera si tengono per mano. Un po’ come la bomba atomica che ha evitato la guerra fra America e Unione sovietica.

Al massimo paga il mafioso, l’anello debole, il boss che ha commesso centinaia di omicidi e ha ordinato le stragi; chi è stato presidente del Consiglio o ministro mai: lui muore sempre nel suo letto, attorniato dai suoi cari che ripetono in coro: “Era un buon uomo”. Fra i politici, al massimo, pagano i più coglioni,  che devono immolarsi per la causa.

Un paradosso incredibile che diventa metafora di un’Italia che feudale era e, malgrado i soldi, malgrado i centri commerciali, malgrado le mariedefilippi, le barbaredurso, i vittoriosgarbi, i silviberlusconi, feudale resta, perché i cromosomi sono più potenti di qualsiasi cosa.

In fin dei conti Totò Riina, nato nel 1930 a Corleone, ha speso i suoi ottantasette anni per garantire allo Stato un equilibrio che senza di lui e senza i suoi amici non avrebbe potuto permettersi. Ha cercato i voti per i grandi politici che lo proteggevano, si è fatto i soldi col traffico di eroina e con gli appalti, ha garantito ai figli e alla moglie un’esistenza di lusso, a volte ha anche fatto una vita di merda, questo sì (fra latitanze, nascondigli, scappatine, ecc.), ma ha consentito all’Italia di vivere nelle democrazia e nel benessere. Del resto, se la vita non è grande è inutile viverla.

Salvo Lima e Giulio Andreotti

 

A un certo punto, però, Riina si incazza e si ribella al sistema feudale. Succede quando al maxiprocesso condannano lui e l’esercito di benefattori a “pene esemplari”. A me, a Totò ‘u curtu, che ha combattuto quei comunisti di Falcone, di Borsellino, di Costa, di Terranova, di La Torre, di Mattarella, a me mi fanno uno sgarbo del genere? A me che li ho seduti su un trono, a Palermo, a Roma, a Bruxelles, mi fanno una tagliata di faccia di questa portata? Cuinnuti, bastardi, sbirri e figghi ‘i pulla. E così il 12 marzo 1992 Riina ordina di uccidere il più grande referente politico di Cosa nostra, quel Salvo Lima che in Sicilia garantisce per Andreotti.

A quel punto – per evitare altri spargimenti di sangue (blu ovviamente) – si apre la trattativa, circolano i papelli, si fanno altri ricatti. Non basta. Riina è una furia. Il delitto eccellente non è sufficiente. Ci vuole “il botto”. Tanti botti. Capaci, via D’Amelio, Firenze, Roma. Bisogna dichiarare guerra allo Stato per fare pace con lo Stato. La trattativa si riapre, più o meno con le stesse modalità del ’50, quando soppressero Giuliano: tante promesse, un tradimento camuffato dall’”azione tempestiva dello Stato”, un caffè alla stricnina e l’incubo del bandito che teneva in pugno i politici scomparve all’improvviso.

La strage di Capaci

Nel caso di Riina non c’è stato bisogno di ammazzarlo, perché lui, al contrario di un volgare bandito come Giuliano, era un mafioso “vero” e non poteva tradire il giuramento di fedeltà a Cosa nostra fatto quando aveva vent’anni. Così è successo a Liggio, a Badalamenti, a Provenzano. Così sta succedendo a Santapaola, ancora in carcere. Così a Graviano, il quale in gattabuia mostra segni di impazienza contro Berlusconi, ma farà la stessa fine degli altri. Una pacchia per certi politici quel ridicolo patto di sangue, l’immaginetta che brucia, e loro, i mafiosi, che ci credono veramente e non tradiscono manco sotto tortura. Una pacchia davvero.

Peccato però: i veri benefattori che marciscono in carcere, e quei cuinnuti, bastaiddi, sbirri e figghi ‘i pulla che se la spassano con belle donne, denaro e champagne. È proprio vero: se la mafia non ci fosse bisognerebbe inventarla. E però Riina, che vita di merda che hai fatto!

Luciano Mirone