Centoquindici anni fa, come oggi, addì 30 settembre, dell’anno del Signore 1902, al Teatro Argentina di Roma, nelle ore serali, viene scritta la prima pagina di una bellissima favola siciliana che per molti anni farà parlare il mondo intero: un manipolo di attori poveri e analfabeti provenienti dalla lontana Sicilia, parte orientale, Catania per la precisione, da quella sera, farà impazzire il pubblico nazionale e internazionale recitando in siciliano le opere dei grandi commediografi e drammaturghi dell’epoca, Verga e Capuana fra tutti, ma anche Alessio Di Giovanni, Pier Maria Rosso di San Secondo, Gabriele D’Annunzio, Angel Guimerà e decine di altri.

Catania. Via Etnea all’inizio del ‘900. Sopra: Giovanni Grasso e Virginia Balistrieri in una scena del film muto “Sperduti nel buio”

Fra questi attori giganteggia il ventinovenne Giovanni Grasso, una voce possente, una mimica eccezionale, una vitalità inesauribile, al punto da essere definito “il più grande attore tragico del mondo” nientemeno che da Lee Strasberg, fondatore dell’Actor’s studio di New York, colui che ha insegnato l’arte della recitazione a Marlon Brando, Marylin Monroe, Paul Newman, Robert De Niro, Al Pacino, e a tanti altri che hanno fatto sognare intere generazioni attraverso il grande schermo.

Adesso chiudete gli occhi e immaginate Catania fra l’Ottocento e il Novecento, il centro storico con le basole di pietra lavica levigata dalle suole delle scarpe e dalle ruote dei carretti e delle carrozze, gli odori della pescheria, i venditori di frutta e verdura dell’Etna, l’acqua di Paternò frisca e annivata, le botteghe dei tappezzieri, dei ciabattini, e dei falegnami.

Immaginate una grande piazza come quella dell’Università, al centro della quale è ubicato il palazzo del marchese Antonino Di Sangiuliano, senatore del Regno d’Italia. Il quale in un magazzino che ha ingresso laterale in via Ogninella, ospita la famiglia Grasso che in quei locali angusti – da essa stessa denominati Teatro Machiavelli – rappresenta ogni sera l’Opera dei pupi.

Lì don Angelo Grasso, rinomato marionettista proveniente da Acireale, che aveva appreso l’arte dei pupi dal padre Giovanni e costui dal padre, fino alla notte dei tempi, ogni sera porta sulle scene le gesta di Orlando e Rinaldo, Angelica e Medoro, Carlo Magno e Gano di Magonza.

Ma ogni sera il vero mattatore del Machiavelli è Giovanni, suo figlio, che fin da bambino, attraverso i pupi, comprende delle regole fondamentali del teatro moderno, regole di cui negli anni successivi si avvarrà il grande attore e regista russo Konstantin Sergeevič Stanislavskij, inventore del “metodo” omonimo di cui parleremo dopo.

Grasso capisce che per essere dei buoni attori bisogna modulare la voce (lui lo fa magistralmente fin da tenerissima età, interpretando ora il vecchio, ora il bambino, ora la donna, ora il guerriero, ora il traditore, ora lo scemo); curare la gestualità e la mimica; imprimere un ritmo sostenuto alla scena. Ma Grasso capisce che per diventare grandi bisogna dare un’anima ai personaggi, e per dare un’anima ai personaggi bisogna diventare come loro. Il “metodo Stanislasky” è questo, calarsi nei personaggi, ridendo, gioendo, soffrendo e piangendo con loro attraverso l’immedesimazione – una sorta di trance – di un momento della vita in cui l’attore ha riso, ha gioito, ha sofferto, ha pianto. Giovanni ne è il precursore, ma lui – chiuso in quell’angusto teatrino della profonda Sicilia – non lo sa ancora.

Assieme a lui, ogni sera, affollano quel teatrino, Angelo Musco, Totò Majorana, Salvatore Lo Turco, Pietro Sapuppo, Giuseppe Bianco, Domenico Quartarone, Salvatore Pizzino, e le grandi famiglie di teatranti come i Bragaglia, gli Anselmi, gli Spadaro, gli Aguglia, i Balestrieri, i Campagna, che in questa storia avranno avuto un ruolo importante.

Il teatro Machiavelli – secondo la descrizione dello storiografo Giuseppe Pitrè – è “un piccolo magazzino, alle cui pareti sono piantati dei palchetti, comodi e puliti all’esterno, ma assai disagiati per chi avrà a prendervi posto, essendovi una panca molto angusta per sedersi, e poco spazio per distender le gambe. Nel mezzo del teatrino sono egualmente piantate un certo numero di panchette, sostenute da assi verticali, che danno l’impressione di essere una enorme graticola di legno. Questo teatrino contiene cento, centocinquanta, a volte anche duecento persone”.

Il prezzo del biglietto è di pochi centesimi. All’interno – secondo la descrizione di Enzo e Sarah Zappulla Muscarà – c’è il venditore di acqua e zammù, di calia e simenza e i cosiddetti ‘sunatura orvi cicati”.

All’ingresso c’è sempre donna Ciccia Grasso, la madre di Giovanni. Secondo la descrizione di Nino Martoglio, se ne sta sempre “imbacuccata in due scialli di lana, col naso rosso per il freddo, davanti a un tavolinetto rustico e a un salvadanaio, dove infilava, ad uno ad uno, i soldini degli avventori, lamentandosi, dopo la morte del marito, il grande puparo Angelo Grasso, languida e triste come un salice piangente, per le tante spese che gravano sulle spalle del povero Giovanni… che butta sangue per niente, da mane a sera”.

Il pubblico del Teatro Machiavelli è composto essenzialmente da pescatori, artigiani, venditori ambulanti, calzolai, fabbri, legnaioli, carrettieri, panettieri, macellai, merciaioli, e molti studenti universitari che comprendono di essere agli albori di una straordinaria epopea artistica, sia in campo teatrale che in campo letterario.

Il commediografo Nino Martoglio

Dunque il giovane Nino Martoglio – capocomico, commediografo, regista, giornalista e poeta – è un assiduo frequentatore di quel locale e, assieme a Grasso (più giovane di lui di soli tre anni), il grande artefice nella nascita e dell’affermazione del teatro siciliano.

Nato a Belpasso il 3 dicembre 1870, ma trasferitosi fin da bambino a Catania, è al “Machiavelli” che respira la polvere del palcoscenico e dell’arte vera, e anche nei cortili della Civita, nei saloni da barba della provincia, nei circoli di paese – del suo soprattutto – e nei vigneti che si estendono alle falde dell’Etna.

Nel teatrino di via Ogninella le serate sono articolate in due parti: la prima è dedicata all’opira ‘e pupi, la seconda alla rappresentazione di canovacci perlopiù drammatici tratti da fatti di cronaca realmente accaduti – soprattutto di sangue – che quei giovani mettono sulle scene recitando a soggetto, dato che molti di questi non sanno neanche leggere e scrivere.

Luciano Mirone

1^ puntata. Continua