Sporco negro… Io gli sparerei a questi bastardi… Non sono razzista, ma se ne devono andare… Ognunu ‘a so casa… Sono selvatici… sporchi… brutti… cattivi… Da annientare… Puzzano… Stuprano… Tolgono il lavoro… Abbassano il salario… Ti assaltano mentre sei in macchina… ‘Sti lavavetri… Non se ne può più… E i Vu Cumprà che invadono le nostre spiagge… Nooo, nei posti di villeggiatura no… E neanche altrove… Faremo le barricate… Cacano per strada… Pisciano sui muri… Fra dieci anni saranno più loro che noi, come le mosche… Tutti terroristi… Tutti violenti… Tutti intolleranti… Tutti Spacciatori… Tutti ubriachi… Tutti straccioni… 

Il boss italo americano Al Capone

Chi pensa che questo articolo sia un tentativo di sfottere i razzisti si sbaglia. È una cronaca degli anni Trenta e Cinquanta, quando a New York e a Torino i “neri” eravamo noi ed eravamo considerati peggio dei neri di oggi, ricordate i cartelli “Non si affitta ai siciliani”? Non ci sopportavano, perché eravamo “diversi”. Avevamo i nostri dialetti, le nostre usanze, i nostri santi da portare in processione, le nostre pezze al culo, il nostro analfabetismo, la nostra terra sotto le unghie, le nostre vasche da bagno dove si coltivava il basilico, le nostre case che puzzavano sempre di aglio (almeno a leggere i libri sugli italiani in America), avevamo tanta gente onesta ma anche tanti farabutti. E loro – gli americani, i torinesi, gli svizzeri, i tedeschi, gli Argentini – ci pigliavano per il culo perché ci vedevano ridicoli e ci riempivano di luoghi comuni: dicevano che “tutti” eravamo mafiosi (succede ancora), che tutti eravamo “bassi”, che tutti eravamo peggio di come noi oggi vediamo i “neri”, però ci hanno aperto le porte e ci hanno dato la possibilità di emanciparci, e alla fine ci hanno apprezzato. E noi abbiamo dimenticato tutto. Roba ottant’anni fa, roba di oggi.

Luciano Mirone