E’ venuto a mancare in questi giorni ad Acireale, all’età di 90 anni, Rosario Lizzio, uno dei più grandi Maestri dei meravigliosi carri di carnevale. Noi che abbiamo avuto l’onore di averlo conosciuto, gli dedichiamo questa intervista realizzata alcuni anni fa. 

Era dopo la festa di san Sebastiano che Rosario Lizzio metteva mano al carro: costruiva il capannone (una struttura in legno, coperta da un telo di plastica) e con i suoi bravi collaboratori realizzava l’opera. Per un mese – dal 20 gennaio fino a carnevale –  via Giuseppe Sciuti, la sua strada di residenza, veniva chiusa al traffico. Per trenta giorni consecutivi quella viuzza situata nel centro storico di Acireale palpitava di vita, si trasformava in un teatro all’aperto dove i colori e gli odori delle vernici erano un tutt’uno con l’argilla, il gesso, la colla, la carta, l’amido “Singhiozzelli” (“il migliore per trattare la cartapesta”), mentre il vocio degli artigiani  si disperdeva tra i palazzi barocchi della stradina.

E lui, Rosario Lizzio, falegname di vaglia, sovrintendeva al lavoro e dispensava consigli, memore degli antichi insegnamenti impartitigli dal suo vecchio maestro Sebastiano Longo, che del carnevale acese, o meglio, della manifestazione dei carri allegorici – nell’immediato dopoguerra – fu uno degli antesignani. Per oltre trent’anni Rosario Lizzio è stato un raffinato maestro del carro: dalle sue mani sono uscite fuori alcune fra le opere più belle del carnevale di Acireale.

Un carro infiorato del carnevale di Acireale. Sopra: un carro di cartapesta

“Creavo nel dormiveglia, fantasticavo e sognavo, draghi alati, principesse, castelli incantati; mi alzavo dal letto, abbozzavo un disegno, lo modificavo. Le mie notti erano popolate da queste figure che nei giorni di carnevale si materializzavano magicamente sul carro”.

La carriera del Maestro Lizzio cominciò subito dopo la guerra, quando la città fu attraversata da un fremito di euforia e di entusiasmo dopo le sofferenze patite. Il carnevale costituì il pretesto per ricominciare a vivere. E così una schiera di valenti artigiani (fra questi vanno ricordati Neddu Grasso, Salvatore Longo, Carlo Papa, e poi Condorelli, Messina, Ardizzone) riprese una tradizione che nel corso degli anni è stata apprezzata ed ammirata in tutto il mondo.

“Avevo  diciotto anni quando iniziai a lavorare nella bottega di Longo. In poco tempo, guardando il maestro, mi appassionai ai carri ed imparai ad allestire la cartapesta. All’inizio abbozzando una mano, un naso, un volto. Poi costruendo un carro vero e proprio. Come carrista esordii a ventidue anni. Allora non c’erano i congegni elettronici di oggi, tutto veniva costruito a mano: in mancanza del gruppo elettrogeno, per alimentare l’impianto di illuminazione dovevamo caricare sul mezzo una batteria di cento chili. Eppure si facevano dei carri favolosi. Nel ’63, per conto del Comune, mi recai al carnevale di Viareggio. Lì un carrista è considerato un professionista a tutti gli effetti, e viene retribuito per quello che merita. Fui ospitato da Galli, l’artigiano più famoso della città, viveva in una villa che neanche un onorevole poteva permettersi. Col passare del tempo eguagliai il Maestro Longo, fino a diventare il suo principale antagonista”.

I carri di carnevale immersi nello splendido barocco di Acireale

Mentre l’Italia si appassionava ai dualismi dei grandi campioni dello sport, Acireale per oltre un ventennio visse con passione la sfida fra Lizzio e Longo. E tifava ora per l’uno ora per l’altro: “La gente impazziva quando il mio carro entrava in piazza Duomo con l’orchestra che intonava l’Aida. Alcune volte vinceva lui, altre volte io. Quando perdeva (bisogna considerare che dal ’71 all’80 ho fatto incetta di primi premi) Longo ci rimaneva male. Nei giorni successivi passava davanti alla mia bottega con il broncio e la testa bassa, senza fare la solita sosta. Poi i nostri rapporti si normalizzavano, per raffreddarsi nuovamente l’anno successivo quando la passione ci divideva ancora una volta”.

“L’opera più bella? Onestamente tutte. Ma di una ho un ricordo particolare: negli anni Settanta realizzai un carro dal titolo Il lupo e l’Agnelli: su una Topolino decappottabile c’erano raffigurati il patron della Fiat con una maglia bianconera. Sotto di lui, un lupo con la faccia dell’ex dittatore libico Gheddafi, che indossava un berretto di generale. Più in basso una grande torta con la scritta Fiat, divisa fra il leader libico (in quegli anni azionista della Casa automobilistica) e Agnelli. Qualche giorno dopo presi la foto che ritraeva la scena e la spedii all’avvocato, accompagnata da una lettera in cui chiedevo un posto di lavoro per mio genero. Non ci speravo, ma con mia grande sorpresa l’avvocato mi rispose, dicendomi che il ragazzo poteva presentarsi nella sede di Catania per un colloquio”.

Nell’80 il Maestro si ritirò definitivamente, “non per stanchezza”, come spiega lui stesso, “ma perché quell’anno il Comune aveva costruito i capannoni per i carri. Io che per tanti anni avevo lavorato in via Sciuti, che custodivo gelosamente ogni segreto della mia opera, dovevo trasferirmi in un luogo certamente più confortevole ma meno riservato. Declinai l’invito e mi ritirai per sempre. Da allora i carri mi mancano tanto. Nei primi anni, quando iniziava la festa, piangevo come un bambino; speravo che si scatenasse un temporale per non vederli sfilare. Poi mi sono rassegnato. Ma il mio cuore è rimasto per sempre lì, fra quei fantastici personaggi di cartapesta”.

Luciano Mirone