Se la Procura di Catanzaro diretta da Nicola Gratteri ha deciso di ordinare l’autopsia sul corpo dell’ex poliziotto Giovanni Aiello, detto “Faccia da mostro”, stroncato da un infarto (secondo la versione ufficiale alla quale alcuni non sono propensi a credere) mentre tirava sulla spiaggia di Montauro la sua barca, evidentemente di lui non ci si fida neanche da morto.

E in un post su fb lo scrive a chiare lettere anche l’ex presidente della Commissione antimafia europea Sonia Alfano, che di mafia si occupa da quando Cosa nostra uccise nel 1994 il giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) Beppe Alfano, suo padre: “Non me ne voglia nessuno – scrive l’ex parlamentare europeo – ma dopo 24 anni della mia vita passati a studiare gli atti giudiziari più drammatici e vergognosi riguardanti la storia della mafia nel nostro Paese, nutro seri dubbi. E chi mi conosce bene – prosegue Sonia Alfano – sa che non amo il complottismo e che quando mi esprimo lo faccio basandomi su dati di fatto. Diversamente se dovesse essere vero, mi spiace solo che adesso tante palesi verità verranno definitivamente occultate grazie al sigillo di questo ipotetico decesso”.

“Ipotetico” o meno, la verità è che la vita di questo ex agente dei servizi segreti è un mistero come le stragi e i delitti nei quali, secondo quanto emerge dalle indagini (poi archiviate) di ben quattro Procure (Palermo, Caltanissetta, Reggio Calabria e Catania), sarebbe stato coinvolto, anche se i suoi legali dicono che Aiello è “morto da innocente”, in quanto su di lui non esiste una sola prova delle presunte colpe.

Intanto dalle carte emergono cose pesanti, a cominciare da un presunto coinvolgimento nel delitto del collega poliziotto Nino Agostino e della moglie di questi Ida Castelluccio, e nelle stragi degli anni Novanta come Capaci e via D’Amelio.

Nino Agostino e Ida Castelluccio. Sopra: Giovanni Aiello, detto “Faccia da mostro”

Che Aiello fosse invischiato nelle trame più sconvolgenti dell’ultimo quarto di secolo lo dicono diversi pentiti, e lo ribadisce Vincenzo Agostino, padre di Nino, che nel periodo dell’attentato fallito all’Addaura contro il giudice Giovanni Falcone – 21 giugno 1989, tre anni prima dell’eccidio di Capaci – ricevette la strana visita di un sedicente collega del figlio che chiedeva strane notizie di Nino. “Un tizio con la faccia da mostro”, ha sempre detto Vincenzo. Una orrenda cicatrice sulla guancia che Aiello ha sempre giurato che fosse stata causata da un incidente.

Il padre dell’agente “fotografò” nella sua mente quel volto e non lo dimenticò mai, neppure quando il 26 febbraio dell’anno scorso lo rivide per un confronto all’americana: “Faccia da mostro – disse – è Giovanni Aiello. Una dichiarazione – secondo i magistrati – non suffragata da prove e quindi considerata una delle tante testimonianze rese in un processo.

La verità e che dopo quel fallito attentato, Nino cominciò a indagare sui cinquantotto candelotti di dinamite piazzati fra gli scogli della villetta dove Falcone in quel primo giorno d’estate dell’89 aveva deciso di recarsi “per fare un tuffo a mare”. Pochissimi sapevano di quello spostamento. Eppure con un mezzo marino qualcuno piazzò il tritolo e fuggì. Ad accorgersi dell’esplosivo fu proprio lui, l’agente Nino Agostino, componente della scorta di Falcone. Ma non vide solo il borsone che nascondeva la dinamite, si accorse di certi movimenti che non riguardavano mafiosi, ma gente di certi settori istituzionali che forse lui conosceva. E cominciò a ficcare il naso in questa storia. Cosa scoprì non si è mai saputo. Però sappiamo che Falcone, durante i funerali del poliziotto disse: “Io a quel ragazzo gli devo la vita”. E sappiamo pure che quando Nino Agostino due mesi dopo – 5 agosto 1989 – venne falciato da almeno due sicari assieme alla moglie Ida che portava in grembo una creatura di pochi mesi, lasciò una traccia: un biglietto dentro il portafogli ritrovato dal padre Vincenzo accorso immediatamente sul posto: “Se mi succede qualcosa andate a guardare nell’armadio della mia stanza da letto”. Cosa doveva esserci in quell’armadio? Gli appunti sul fallito attentato all’Addaura che Nino aveva ordinato in due mesi di indagini.

Vincenza e Augusta Agostino, genitori dell’agente ucciso nell’89 a Palermo

Vanno in quella camera, rovistano nell’armadio ma non trovano niente: qualcuno li ha anticipati.

Che in questa storia ci fosse il coinvolgimento di certe “menti raffinatissime” – come le aveva definite lo stesso Falcone – appare pacifico ed è dimostrato dall’indagine interna ordinata da Totò Riina, che stabilì che per la vicenda all’Addaura la mafia era estranea.

E allora? Quando per un delitto eclatante come quello di Nino Agostino lo stesso Falcone si espone con un io-a-quel-ragazzo-gli-devo-la-vita, quando la Squadra mobile segue una inesistente “pista passionale”, quando addirittura si parla del coinvolgimento di Gladio, e quando negli anni successivi, da certi uffici investigativi spariscono verbali, identikit e testimonianze (secondo il pentito Vito Lo Forte addirittura quel giorno “Faccia da mostro” avrebbe aiutato i sicari Gaetano Scotto e Antonino Madonia a massacrare Agostino), il gioco appare fin troppo chiaro, ma è inversamente proporzionale alla verità processuale, che appare fin troppo oscura, fino a sparire del tutto assieme alle prove che qualcuno nel frattempo è riuscito a manomettere e ad eliminare.

Falcone e Borsellino ai funerali di Nino Agostino e Ida Castelluccio.

Il copione si ripeterà quattro anni dopo per le indagini sulle grandi stragi degli anni Novanta e sulla Trattativa.

Eppure se lo leggiamo con attenzione quel copione è identico ai fatti più eclatanti della storia dell’Italia del dopoguerra, dalle stragi ai delitti di Stato come Moro, Pecorelli, dalla Chiesa, Mattarella, Costa, Terranova, Basile, Impastato, Fava, Ciaccio Montalto e tanti altri.

Ultimo assassinio eccellente, in ordine di tempo (2004), quello dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, Attilio Manca, a dimostrazione del fatto che il micidiale connubio mafia-servizi segreti deviati, quando mostra nervi scoperti, sa come e dove spostare la propria attenzione per mantenere la pax: prima su giornalisti, magistrati, uomini politici e gente comune, poi su medici “pericolosi” che con le verità di cui potrebbero essere depositari potrebbero fare saltare equilibri anche politici.

Secondo la verità giudiziaria emersa a Viterbo, Manca è morto per due iniezioni di eroina che si sarebbe praticato da solo, dato che a parere dei magistrati laziali si drogava da quindici anni.  Peccato che non ci sono prove che lo dimostrino.

La verità che questo giornale ha cercato di dimostrare scientificamente attraverso il supporto di un docente di Medicina legale, potrebbe essere un’altra: che Manca sarebbe stato ucciso “per soffocamento”, dopo un violento colpo ai testicoli inferto da qualcuno che lo avrebbe immobilizzato. Quindi gli sarebbe stata propinata l’eroina, ma con un errore che può capitare anche ai più esperti simulatori di suicidi: nel braccio sbagliato, quello sinistro, dato che Attilio era un mancino puro. Una delle tante contraddizioni che caratterizzano questa storia.

Una ricostruzione che collima perfettamente con le dichiarazioni di ben quattro pentiti: uno in particolare, Carmelo D’Amico, ex boss di Barcellona Pozzo di Gotto, dice cose ben diverse da ciò che sostengono i magistrati di Viterbo: e cioè che l’urologo è stato ucciso perché coinvolto nell’operazione di cancro alla prostata alla quale il boss Bernardo Provenzano, allora latitante, è stato sottoposto a Marsiglia nel 2003. E siccome Provenzano per oltre quarant’anni ha usufruito delle protezioni di certi apparati deviati dello Stato, non è escluso che Attilio Manca possa aver visto personaggi che non doveva vedere, che magari hanno coperto la latitanza del boss anche in quel di Barcellona Pozzo di Gotto, la città di Manca, per parecchio tempo.

Attilio Manca

D’Amico sostiene che per assassinare Manca – su ordine del boss Saro Cattafi, potentissima cerniera fra Cosa nostra ed entità deviate dello Stato – si sarebbe mosso un agente dei servizi segreti di cui non ricorda il nome, però dice che all’interno della mafia lo chiamavano “’u bruttu”, e “u calabrisi”, specializzato nel far passare gli omicidi per suicidi. Ovviamente non si possono costruire teoremi, ma il fatto singolare è che nessuno ha mai cercato di riscontrare le dichiarazioni del pentito.

Anche questa storia – come quella di Nino Agostino – è stata derubricata banalmente ad una questione di natura personale. Eppure il contesto sembra lo stesso. Di recente anche la Procura di Reggio Calabria ha cominciato ad indagare su Faccia da mostro. Si ipotizza un legame con l’ex capo degli 007 Bruno Contrada, per il quale nei giorni scorsi è stata ordinata una perquisizione.

Luciano Mirone