“Tagghiala, sennò ti scippamu ‘a testa”. Il messaggio è secco, perentorio e non ammette repliche. A Catania è collaudato da una quarantina d’anni, soprattutto con imprenditori e commercianti: se non “la tagliano” (non la smettono) di resistere a Cosa nostra, possono finire con la testa “scippata”. Da queste parti funziona sempre: la lettera anonima, il “consiglio” e il silenzio. Lungo, inscalfibile, impenetrabile.

Stavolta è diverso. Chi ha scritto quelle cinque parole ha sbagliato decisamente i conti . Stavolta non è il proprietario impaurito dell’azienda o del negozio a ricevere il monito. Scegliere I Siciliani come destinatari – con la foto che ritrae i ragazzi dietro lo striscione, con il ritaglio della faccia di Giovanni Caruso, responsabile della redazione di Catania, e per giunta in una giornata fortemente simbolica come il cinque gennaio – vuol dire essere temerari o coglioni, non avere memoria e consapevolezza di uno dei più grandi monumenti di lotta alla mafia del mondo, innalzato il 5 gennaio 1984 fa col sangue del suo fondatore, Giuseppe Fava, e proseguito con quattro generazioni di “carusi” magari squattrinati ma che hanno contribuito a sbattere Santapaola in galera e a cacciare i Cavalieri dalla città.

 

Immagine di una manifestazione a Catania contro la mafia. Sopra: lo striscione de I Siciliani con alcuni redattori il cinque gennaio di quest’anno

Chi ha scritto quella lettera non ha previsto la reazione civile di quel giornale, come trentatré anni non previde cosa sarebbe successo dopo l’omicidio di Fava, quando in quella fredda sera di gennaio Aldo Ercolano sgattaiolò in via dello Stadio ed eseguì l’ordine del suo capo Nitto Santapaola, il quale non si sa se agì autonomamente o per conto di entità più potenti: il processo si è fermato all’ala militare, ma in ogni caso i Colletti bianchi della mafia sono spariti, ne manca uno, e I Siciliani esistono ancora.

Una reazione, dopo la recente minaccia, portata avanti con la magistratura e le forze dell’ordine, ma soprattutto con un’opinione pubblica che, attraverso i social o il telefono, ha inondato di messaggi la redazione.

La lettera anonima è arrivata – fatto non  casuale – il giorno del venticinquesimo anniversario dell’eccidio di via D’Amelio, nel periodo di massima espansione del giornale che da tre anni – per volontà soprattutto di Riccardo Orioles (attuale direttore e storico fondatore della testata) e dello stesso Caruso – ha ripreso in maniera decisa molte battaglie assieme ad una galassia di associazioni di tutta Italia e a tanti ragazzi desiderosi di fare i giornalisti attraverso il metodo Orioles.

Cinque giorni prima delle minacce, la versione “cartacea” (che si affianca a quella online isiciliani.it), dopo essere stata presentata in diverse parti d’Italia, era approdata a Catania, in uno dei luoghi simbolo di Cosa nostra, piazza Federico II, a San Cristoforo, luogo di spaccio e di nascita di Nitto Santapaola, rinchiuso nelle Patrie galere dopo le stragi del Novantadue, ma ancora capo indiscusso della mafia catanese.

Come si permettono dei ragazzi dai sedici ai sessant’anni di profanare i luoghi di don Nitto? Già, come? Intanto è successo. “La cosa più incredibile – dice Giovanni Caruso – è che quella sera si è parlato dei beni confiscati alla famiglia Ercolano : alcuni di questi dobbiamo gestirli noi. Fra questi un appartamento che destineremo alle associazioni catanesi, con l’esterno che si chiamerà ‘Il giardino di Scidà’, in memoria di un altro grande catanese che si è battuto per il riscatto di quasta città. La mafia non tollera affronti di questo genere”.

Qualche giorno prima i Tir confiscati all’assassino di Giuseppe Fava avevano trasportato I Siciliani da un capo all’altro d’Italia. Come è successo non lo sappiamo. Intanto è successo. Fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile.

Luciano Mirone