C’è qualcosa di terribile nella storia del necrologio censurato alla famiglia del commissario Beppe Montana, trucidato da Cosa nostra nel 1985, mentre a Palermo – da capo della sezione Catturandi –  era sulle tracce dei grandi latitanti di Stato. Immaginate un padre che si reca presso lo sportello pubblicità dell’unico quotidiano di Catania – la città del commissario Montana e della sua famiglia – per farsi pubblicare due righe di annuncio luttuoso a distanza di un mese dalla morte del figlio, e mentre prende il portafogli per pagare, si sente dire dall’addetto al servizio: mi dispiace, ho avuto disposizioni di non pubblicare certi necrologi. Al che uno può pensare a un rigo fuori posto, a un’imprecisione nel riempire il modulo, a un refuso involontario… Macché. Quel necrologio – secondo quanto denunciato dalla famiglia Montana – non può essere pubblicato perché contiene la parola “mafia”.

Il commissario di Polizia Beppe Montana. Sopra: Mario Ciancio

La cosa terribile è questo divieto di usare perfino le parole giuste, perché attraverso le parole giuste puoi involontariamente raccontare una città, e il potere non può permettersi di fare trapelare – anche attraverso un semplice necrologio – che Catania è una città profondamente diversa da come le cronache rassicuranti di quell’unica gazzetta la descrivono.

Sennò che senso avrebbe avuto – appena un anno prima – l’assassinio di Giuseppe Fava (anche li, guarda caso, c’è la storia di un necrologio censurato), che non solo si era permesso di infrangere la regola del silenzio, ma aveva costruito un modello di informazione alternativa?

Di Mario Ciancio forse non tutto hanno un’immagine nitida. Il processo per concorso esterno in associazione mafiosa (che inizierà il prossimo 20 marzo, con la costituzione di parte civile di Dario Montana, fratello di Beppe, proprio per quel necrologio negato) ci dirà se ci troviamo di fronte a una figura degenere di un Mastro don Gesualdo dei tempi moderni, tutto proteso ad accumulare denari attraverso terreni diventati edificabili in una notte, oppure a un individuo che ha coperto un sistema del quale, a parere dei magistrati, sarebbe stato parte integrante, e addirittura leader dopo la caduta dei Cavalieri del lavoro.

Un editore che arriva a censurare il necrologio di due famiglie annientate dal dolore è un personaggio di un cinismo sconvolgente, un personaggio che a Catania – mentre Santapaola uccide e i Cavalieri comandano – ha l’incarico di nascondere questo osceno apparato attraverso le cortine fumogene propalate a un’opinione pubblica disorientata e inconsapevole, come nella Varsavia ai tempi del comunismo. Ciancio è un personaggio che parte da Catania per affermarsi a livello nazionale, prima stringendo un patto leonino con gli editori di “Repubblica”, che pur stampando l’edizione siciliana nei suoi stabilimenti, dovevano lasciare intatto il monopolio dello “zio Mario” (come affettuosamente lo chiamano i suoi redattori) a Catania; dopo succedendo addirittura come presidente nazionale della Federazione degli editori dei giornali (Fieg) addirittura a Luca Cordero di Montezemolo. In tanti anni di denunce, di battaglie, di giornalisti ammazzati, nessuno di costoro si è mai accorto di nulla?

Giuseppe Fava

Nessuno ricorda quando i magistrati indicavano Santapaola come il killer di Dalla Chiesa e “La Sicilia” diede la notizia con diversi giorni di ritardo rispetto agli altri quotidiani nazionali, o quando il pentito Maurizio Avola svelò clamorosamente che il mandante del delitto Fava era stato Santapaola e nei confronti del collaboratore di giustizia venne messa mise in atto una incredibile campagna mediatica per delegittimarlo, o quando Cosa nostra uccise Beppe Alfano, cronista de “La Sicilia” da Barcellona Pozzo di Gotto, e mentre il quotidiano del mattino era intento a celebrare la “figura integerrima” del suo corrispondente, “L’Espresso sera”, testata pomeridiana dello stesso gruppo editoriale, sparava in prima pagina: “Siamo sicuri che sia stata la mafia?”. Anni dopo avremmo scoperto che Alfano era stato ucciso perché aveva scoperto il nascondiglio segreto di Nitto Santapaola. “Coincidenze”…

Ma il ruolo di Ciancio non è stato solo quello di occultare le notizie sgradite al sistema. La sua mission è andata “oltre” mediante la neutralizzazione dei giornalisti liberi: il primo fu proprio Pippo Fava, quando – molti anni prima che venisse ucciso – fu estromesso dalla direzione del giornale di cui per tanti anni era stato capo cronista. Fava se ne andò sbattendo la porta: prima fondò il “Giornale del Sud”, poi  “I Siciliani” e tutti sappiamo come andò a finire. Poi fu la volta di Nino Milazzo, ex vice direttore del “Corriere della Sera”, tornato a Catania su espressa richiesta di Ciancio per dirigere “La Sicilia”: Milazzo fu licenziato poco tempo dopo per insubordinazione alla linea editoriale. Quindi fu il turno di Telecolor: l’editore acquistò l’emittente e poi licenziò l’intera redazione distintasi negli anni per non aver piegato la schiena ai padroni della città. Infine ci sono le storie di cui nessuno parla: di speculazioni edilizie censurate perfino sui giornali amici  di giornalisti “morbidamente” estromessi.

A Catania funziona così. A Catania oggi c’è un sindaco che invece di combattere una battaglia democratica per un’informazione libera, dimostra disponibilità all’editore amico, salvo a dichiarare la costituzione di parte civile del Comune al processo contro lo stesso editore.

Quello stesso processo che ci dirà se – come diceva Fava – la “sindrome Catania” è una grande tragedia del nostro tempo, oppure se i tempi della farsa e della commedia dell’arte in questa città sono ancora attuali.

Luciano Mirone