La vicenda del candidato a sindaco di Trapani, Mimmo Fazio (che nel pieno delle elezioni amministrative rinuncia al ballottaggio dopo essersi piazzato primo col 33 per cento) conferma ancora una volta che né la politica né i cittadini sentono l’esigenza di porre la “questione morale” al centro della vita pubblica. Deve intervenire la magistratura – come sempre – per fare rispettare un minimo di etica.

La notizia non è solo che Fazio abbia deciso di abbandonare la competizione elettorale, ma che – malgrado il recente arresto per corruzione e traffico d’influenze e un nuovo possibile arresto di  cui si parla nei corridoi del Palazzo di giustizia – abbia ritenuto di candidarsi lo stesso e, fatto addirittura più grave, che il 33 per cento dei trapanesi lo abbia votato.

Il sen. di Forza Italia, Antonio D’Alì. Sopra: il deputato all’Ars Girolamo Fazio, èx sindaco di Trapani, candidatosi alle amministrative

Non entriamo nel merito dell’inchiesta che vede l’armatore Ettore Morace (figlio del “patron” del Trapani Calcio) accusato di aver chiesto favori allo stesso Fazio, al deputato nazionale Simona Vicari, e al governatore della Sicilia, Rosario Crocetta (gli ultimi due destinatari di un avviso di garanzia) in cambio di regalie e di benevolenze di vario tipo. Non entriamo nel merito delle dichiarazioni dello stesso Fazio che si proclama innocente (cosa che gli auguriamo di dimostrare in futuro). Qui il problema è che il deputato regionale ed ex sindaco di Trapani – al cospetto di un arresto domiciliare poi revocato, ma comunque foriero di possibili e ulteriori  sviluppi giudiziari – non ha ritenuto di fare un passo indietro quando avrebbe dovuto, cioè almeno quando è scattato l’arresto.

Certo, le ragioni che lo hanno portato a farsi il primo turno sono diverse, a partire dal fatto che le liste per il Consiglio comunale, quando il provvedimento cautelare è partito, erano pronte e lui – come è stato detto – non poteva deludere i suoi candidati, così come non poteva deludere se stesso, convinto della sua onestà ed incorruttibilità, cose delle quali – fino a prova contraria – non bisogna dubitare. Ma in politica (soprattutto in politica), per dirla con Plutarco, “la moglie di Cesare non solo deve essere onesta, ma deve dimostrarlo”. Fazio avrà il tempo e il modo di farlo. Candidandosi ha dato un contributo ulteriore alla diseducazione di un popolo ormai convinto (o peggio, assuefatto) che sia “cosa buona e giusta” dare il voto a chi non si preoccupa neanche di dimostrare la sua onestà. Su questo Fazio ha dei predecessori ben più famosi (Andreotti e Berlusconi docet), ma il fatto più scandaloso è che a Trapani – oggi grande metafora dell’Italia – c’è un 33 per cento di elettori che legittima una cultura che sta sgretolando la struttura morale di questo Paese.

Il candidato a sindaco di Palermo Fabrizio Ferrandelli (Foto ANSA/MIKE PALAZZOTTO)

Ma la cosa non finisce qui. Distanziato di appena tre punti dal secondo classificato – il candidato del centrosinistra Pietro Savona (26 per cento) – troviamo il senatore di Forza Italia, Antonio D’Alì (23,46 per cento), considerato colluso con la mafia fino al 1994 e per questo ritenuto dai magistrati di Palermo “socialmente pericoloso”, con obbligo di soggiorno nella sua città. Dunque il 56 per cento dei trapanesi  (fra i votanti di Fazio e di D’Alì) che domenica scorsa si è recato alle urne, ha ritenuto di usare uno strumento formidabile come il voto per dimostrare che l’Italia non è poi quel Paese democraticamente sottosviluppato come nelle Nazioni più evolute vogliono far credere. Nooo. Ci sia concessa l’ironia.

Ma Trapani – ripetiamo – oggi è solo una metafora: nella vicina Palermo il candidato del centrodestra Fabrizio Ferrandelli con il 31,19 di voti, si classifica alle spalle del neo sindaco Leoluca Orlando. Ferrandelli da qualche mese è indagato per voto di scambio con la mafia in merito alle elezioni del 2012. Sponsor principale dell’enfant prodige della politica palermitana, l’ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro, reduce da cinque anni di carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra.

Luciano Mirone