Da due giorni impazza sulla rete e nei giornali il dibattito pro e contro la sentenza della Prima sezione penale della Cassazione, che ha affermato il diritto di Totò Riina di “morire dignitosamente”, e, con un rinvio, ha assegnato allo stesso tribunale che l’aveva negato, il compito di motivare meglio le ragioni della pericolosità del boss in presenza delle sue “gravi” condizioni di salute.

Ciò che ha colpito di questa sentenza è l’avverbio “dignitosamente”, termine che ha suscitato indignazione e risentimento da parte dei parenti delle 200 vittime di mafia, assassinati “senza dignità” dalla “belva” di Cosa Nostra.

Il principio della dignità è certamente molto antico e su di esso poggiano numerosi ordinamenti costituzionali. Per es. l’art. 27 della nostra Costituzione obbliga lo Stato ad attuare condizioni detentive dignitose, ed è a questo articolo e alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che si richiama esplicitamente la sentenza della Cassazione.

Tuttavia il problema che pone il caso Riina, e lo dimostra anche il dibattito che ha scatenato, non può essere considerato solo da un punto di vista giuridico a causa della polisemia e delle molteplici sfaccettature che assume la parola dignità. Si pone soprattutto una questione etica prima che giurisprudenziale, sulla liceità o meno di concedere ad una persona che si è macchiata di gravissimi crimini contro l’umanità, una fine “dignitosamente umana”, in deroga al regime carcerario del 41 bis a cui è sottoposta, come se fosse un uomo libero.

Fermo restando che ogni uomo, persino il più efferato serial killer, ha diritto di essere trattato nel rispetto della propria dignità, ci si chiede, da un punto di vista etico-filosofico, se tale dignità sia necessariamente da considerarsi rispettata solo in violazione della detenzione prevista dal 41 bis.

A mio avviso la questione potrebbe ricevere preziosi contributi di chiarezza da una rapida analisi etimologica-linguistica della stessa parola “dignità”.

Infatti va ricordato che dignità è un termine di origine latina (dignitas) che non esiste in greco, ma trova la propria radice dal ceppo linguistico indo-europeo e in particolare dal verbo dek, che ha vari significati tra i quali quello di “ricevere”, “essere appropriato”, “corrispondere”, “essere adatto”. Dalla radice dek la lingua latina ha derivato l’aggettivo dignus =“che si addice”, “meritevole”, “degno”, composto dalla radice dek=corrispondere e nus=mente, anima. Da dignus a sua volta si ricava il termine dignitas. Questa parola quindi esprime la corrispondenza tra il soggetto e il valore spirituale più alto che secondo i latini distinguerebbe l’uomo dagli altri esseri viventi, ovvero la mente, la sapienza. L’essere degno è colui o colei che si caratterizza per il valore intrinseco di possedere qualità spirituali.  Il nus latino è il nous greco che si distingueva dall’intelletto e aveva sin dalla sua apparizione nei poemi omerici “natura divina”. Furono prima Cesare e poi Cicerone ad utilizzare il termine “dignitas” per mettere in luce questo germe divino o spirituale in un uomo o in un popolo. Secondo Cicerone la dignità è la virtù di un uomo votato a compiere il proprio dovere, con azioni rette, oneste e degne di autorità, fino a rischiare la vita stessa per salvare la repubblica.

Da Seneca in poi la tradizione filosofica antica fino a Kant, ha affiancato alla dignità in senso ciceroniano, una seconda accezione della parola dignità, dal significato più universale: ad essere considerata degna in se stessa è l’umanità non l’uomo, a prescindere dai crimini che il singolo possa aver compiuto. Quindi all’idea etica di dignità si aggiunge e talvolta, in vario modo, si integra, la concezione universalistica della dignità che prescinde dalle azioni compiute dall’individuo e costituisce il fondamento del diritto moderno.

Dunque, se consideriamo la scarcerazione di un boss come Riina per consentirgli una morte dignitosa secondo l’etica ciceroniana, essa non solo sarebbe un’aberrazione, ma addirittura una palese violazione del principio di dignità.

Se invece la poniamo sotto la lente della logica universalistica di tipo kantiano, che esalta il valore dell’essere umano in se stesso, essa dovrebbe prima risolvere una contraddizione in termini, poiché dovrebbe tenere conto del rispetto di tutte le altre dignità umane in gioco, che nella sentenza sono superficialmente prese in considerazione, ovvero la dignità e il valore della vita in se stessa delle persone che sono state minacciate o messe in pericolo dallo stesso Riina e che, se il boss fosse scarcerato sia pure in condizione di precaria salute, potrebbero essere violate, o addirittura cancellate. Secondo quale distorta etica universalistica infatti si potrebbe mettere in primo piano la “dignitosa morte” di un conclamato pluriassassino rispetto alla “dignitosa” sopravvivenza, o meglio vita, di coloro che da costui sono stati minacciati? In un ordine etico universalistico, vale di più la dignità di Riina a morire nel suo letto, o la dignità di magistrati come Nino Di Matteo, o di altri che hanno subito la stessa minaccia, come don Ciotti, di “non correre il rischio di subire l’ordine diretto da Riina di essere uccisi”?

Io credo che al di fuori di ogni vuota retorica discussione sulla dignità, occorre porsi e rispondere alle questioni di etica che essa sottende. E ritengo inoltre che una morte dignitosa per un uomo come Riina sia quella che egli stesso può scegliere di abbracciare, compiendo in estremis un atto di pentimento autentico, raccontando quello che sa ai magistrati, restituendo alle sue vittime quella verità che ha loro brutalmente sottratto con una violenta coltre di indegnità.

Alfia Milazzo