Caro Francesco Totti, abbiamo voluto scrivere queste righe due giorni dopo il clamore mediatico suscitato dal tuo annuncio ufficiale di “appendere le scarpe al chiodo”, per evitare facili retoriche dettate da uno stato d’animo sollecitato dalle tue parole.

Commossi, abbiamo seguito il lungo messaggio schietto, sincero, privo di enfasi, che dal prato dell’Olimpico hai lanciato a tutti noi, e ti confessiamo che di quel messaggio ci ha colpito soprattutto la parola “paura”.

Non la paura di “tirare un calcio di rigore”, ma la paura di non sapere cosa succederà “dopo”, perché non c’è dubbio che il 28 maggio 2017 rappresenta per te una linea di demarcazione col “prima”, che si identifica in due parole: felicità e abitudine. La felicità del gol, della vittoria (ne hai collezionate tante, fino al mondiale con la Nazionale), dell’ovazione dei tifosi. E l’abitudine dell’odore dell’erba bagnata, dello spogliatoio, del sudore, della pomata, del sapone sotto i vapori della doccia, della maglietta, delle scarpette, dei ritiri, delle interminabili partire a scopone, degli scherzi, dei gavettoni, dei sacrifici.

Tutto questo che dopo quasi un quarto di secolo fa parte di te, non ci sarà più. Ci sarà “altro” ed è questo “altro” a farti paura, uno stato d’animo che in modo semplice hai espresso domenica scorsa non solo ai tuoi tifosi ma a tutti gli italiani, perché quello che è successo due giorni fa all’Olimpico non è uno show, è il dramma umano di un campione che a quarant’anni  sente che “non è finita”, perché i muscoli rispondono, il fiato pure, la testa non ne parliamo.

Ma al stesso tempo il tuo ritiro forzoso (ché di questo si tratta, e tu l’hai fatto capire) evidenzia indirettamente il cinismo e l’ottusità di un mondo molto più legato all’anagrafe che alle reali condizioni di un giocatore, il quale – magari non impiegato per novanta minuti – può continuare a dare ancora molto. Anche perché non stiamo parlando del mediano obbligato a correre per l’intera partita per portare acqua alle mezze ali, stiamo parlando di Totti, che la partita te la risolve da un momento all’altro anche con una gamba. E detto tra noi – che non siamo romanisti e che da tempo non seguiamo il calcio come una volta per lo schifo che lo circonda – se fossimo stati al posto di Spalletti, ti avremmo fatto giocare di più, non per evitarti la mortificazione di vederti in un ruolo non tuo (quelle lunghissime e surreali panchine), ma perché anche un tempo, anche gli ultimi venti minuti (come è successo ad altri campioni prima di te) li avresti  meritati, e siamo convinti che il secondo posto in classifica lo avreste ottenuto lo stesso. Ma non vogliamo neanche entrare nel merito delle scelte del “mister”, che evidentemente avrà avuto le sue ragioni per non farti giocare. Lo scopo di quest’articolo è quello di mettere a nudo un mondo talmente incapsulato negli schemi e nei pregiudizi da giocarsi gente che ancora può dire la sua.

La “paura” di Totti non è economica, perché ha tanti soldi, ma è quella di provare la sindrome del grande attore, bello e aitante fino a quando la cinepresa si accorge delle prime rughe, che poi vengono impietosamente riflesse allo specchio. La sua “paura” è quella di ritrovarsi improvvisamente spaesato – senza che nessuno lo abbia aiutato gradualmente a compiere questo cammino, tranne i suoi familiari e gli amici più stretti –nella nuova vita, come colui che da un giorno all’altro si trova a vivere un’esistenza diversa in un posto diverso. Una paura mista alla rabbia di chi è ancora convinto di non essere compreso fino in fondo.

E però, caro Francesco, un’altra cosa ci ha colpiti l’altro ieri sera: il bacio al bambino che promette di seguire le tue orme, al quale hai ceduto la fascia, e i tuoi movimenti mentre pronunciavi il discorso, quell’incedere sul prato, quando ti sei messo a camminare fra i compagni di squadra, il pubblico e la famiglia. Nei momenti più felici della tua carriera la famiglia è sempre stata presente, ma in tribuna. Stavolta l’hai voluta fisicamente lì, e hai voluto camminare volendo dire – al di là di ogni parola – che la direzione è quella.

Ci rendiamo conto che fra tante cose meravigliose che hai vissuto ti mancherà l’ebbrezza del gol. Solo chi ha giocato al calcio, dalla serie A fino alle partite fra bambini in piazza, sa cos’è la felicità di un gol. È una sensazione talmente bella che non si può descrivere. Così come è indicibile la tristezza quando si sa che dal giorno dopo non sarà più così.

E però, caro Francesco, la vita è talmente bella, talmente varia, talmente immensa che può riservare altre felicità, partendo dagli affetti più cari. Chi l’ha detto che di gol non se ne possono realizzare più? Si possono realizzare ma in modo diverso. Bisogna crederci.

Luciano Mirone