Era una bella giornata di primavera, limpida, il sole riscaldava la città dopo mesi di pioggia intensa. Quel 23 maggio lo trascorsi come tutti i giorni, mattina a scuola, pomeriggio in giro, fra volontariato e visite ai parenti. Improvvisamente arrivò la notizia: a Palermo c’è stato un attentato a Giovanni Falcone. Restai sgomenta, e con me l’intera città. Era un periodo triste anche per Paternò, un paesone in provincia di Catania, dove gli squadroni della morte del Malpassoto e di Santapaola uccidevano senza pietà anche durante la festa di Santa Barbara. In pochissimo tempo si radunò in piazza un sacco di gente, ci fu un corteo spontaneo e per la prima volta capimmo che per cambiare qualcosa dovevamo restare uniti”.
Graziella Ligresti ricorda. La storica esponente del mondo del volontariato, diventata sindaca di Paternò un anno dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, racconta come è cambiata la società italiana attraverso la sua città. E lo fa nell’ambito del dibattito “Capaci 25 anni dopo”, organizzato a Belpasso dall’associazione Antimafia e legalità.
Sebastiano Ardita, oggi procuratore aggiunto a Messina, era un giovanissimo magistrato quando ci fu la strage. “Allora l’Italia stava veramente cambiando, i grandi boss dopo decenni furono arrestati, la gente era indignata, ma la politica non svoltò e invece di sconfiggere definitivamente il fenomeno mafioso preferì contenerlo, troppe compromissioni per sradicarlo, troppe deterrenze in Parlamento. Di passi avanti ne sono stati fatti, ma solo contro l’ala militare; purtroppo certe collusioni restano e resistono. Nel nostro Paese non sempre la politica è presente per contrastare la mafia: lo vedo ogni giorno attraverso le mille difficoltà che devono affrontare i magistrati in prima linea. Ma bisogna continuare, non dobbiamo abbassare la guardia se amiamo davvero questo Paese”.
Enzo Guarnera era un giovane avvocato che allora militava nelle file del Pci. In quel periodo – caso unico che raro in un Paese dove gli avvocati preferiscono difendere i mafiosi – aveva deciso di difendere i pentiti. Era il suo modo di dare un contributo alla lotta contro Cosa nostra: “Dopo un quarto di secolo ho capito che il cambiamento passa attraverso i giovani. Quelli di una certa età non cambiano, troppi schemi mentali, troppi legami con una certa politica. I giovani no. Con loro è possibile parlare, la loro mente è sgombra da pregiudizi, da retropensieri e da compromissioni con la politica”.
Salvatore Fiore venticinque anni fa era un giovanissimo imprenditore: poco tempo dopo sarebbe finito nelle mani degli usurai e ci sarebbe rimasto per un paio di decenni. Poi ha deciso di denunciare i suoi aguzzini: la sua vita è cambiata molto da allora. Oggi è presidente di Antimafia e legalità, un’associazione di Belpasso (Ct) che offre assistenza gratuita alle vittime dell’usura e del “pizzo”: “Prendiamo il boss Aldo Navarria, ex braccio destro del ‘Malpassoto’ Giuseppe Pulvirenti: dopo cinque omicidi si era beccato trent’anni, ma con la buona condotta se ne è fatto ventisei. Mi chiedo come può lo Stato dare ventisei anni a un mafioso che ha commesso cinque omicidi. Uscito dal carcere si è riorganizzato con le estorsioni e ha ucciso un imprenditore bruciandolo nei copertoni. E’ stato arrestato nuovamente, ma fino a poco tempo fa girava liberamente, tutti gli pagavano il ‘pizzo’, ma lo negavano, salvo a scoprire che un sacco di negozi ogni mese gli versavano la tangente. Sono sicuro che ancora sono in tanti a pagare, ma pochi sono davvero quelli che si ribellano. Li invito a denunciare: solo così possiamo creare una società veramente libera”.
Dopo un quarto di secolo Graziella, Sebastiano, Enzo e Salvatore portano avanti la loro azione quotidiana nel nome di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino: “Non ci vogliono grandi gesti – dicono all’unisono – . Basta che ognuno di noi, nel proprio ambito, faccia il proprio dovere. Onestamente e coerentemente”.
Luciano Mirone
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