“Immaginate una madre costretta a nascondersi dietro le macchine perché vuole vedere i suoi cinque figli ricoverati in un una Comunità per minori. Sapete perché i suoi bambini dai due ai quattordici anni sono stati strappati alla loro mamma? Perché è povera. E sapete quanto versa il Comune in provincia di Catania alla struttura che li ospita? 80 Euro al giorno a bambino. Che, moltiplicati per cinque, fanno quattrocento al giorno. Che, moltiplicati per trenta, fanno 12mila al mese. Che, moltiplicati per dodici, fanno 144mila Euro l’anno. Qualcuno può spiegare come si può strappare un bambino di due anni a una madre solo perché è povera? Qualcuno può spiegare perché una minima parte di questo danaro pubblico, invece di erogarlo a Comunità e Case famiglia, non viene investito per aiutare una donna costretta a nascondersi per non creare ulteriori traumi ai figli? Qualcuno può spiegare se un meccanismo del genere è normale o aberrante?”.
Alfia Milazzo parla con calma ma con fermezza. Da quando si occupa del caso di Michele, dieci anni, musicista in erba della Scuola di musica “Falcone-Borsellino” di Catania (che rischia di finire in Comunità), ha un pensiero fisso: approfondire il ruolo di queste organizzazioni per comprendere i motivi che portano le istituzioni a ricoverare un minore in una delle tante strutture sparse nel territorio catanese. Secondo lei la storia di Michele (di cui ci siamo occupati nella prima puntata) è solo la punta dell’iceberg: “Non mi pare – dice lei stessa – che il ricovero di un minore sia sempre dettato da giuste cause”. A prescindere dal lavoro svolto dalle istituzioni, la presidente della Fondazione “La città invisibile” (all’interno della quale opera l’orchestra “Falcone-Borsellino, che accoglie i ragazzini dei quartieri a rischio come Michele) mette il dito su due dati oggettivi: il business che starebbe dietro l’attività di diverse Comunità per minori e la contraddizione della legge che ne regolamenta il ricovero.
Alfia Milazzo, come sorgono queste comunità?
“Molte si costituiscono come cooperative no profit per le quali non si devono fare bilanci particolarmente complicati. Si fanno accreditare dalla Regione Sicilia e cominciano a lavorare. Chiunque può aprire una cooperativa, ma l’ispezione della Regione arriva dopo qualche anno: solo allora ti dicono se meriti o meno di portare avanti l’attività. Ma prima chi ha controllato? Di recente ho visitato una comunità di Catania: ho visto bambini fumare e alienarsi alla play station dalla mattina alla sera. Ci sono bambini che, dopo essere stati la mattina a scuola, non tornano in comunità, la quale deve aspettare ventiquattro ore prima di segnalare ai carabinieri la scomparsa del minore; un genitore lo farebbe immediatamente. Perché questa trascuratezza? Queste comunità sono terre di nessuno, al loro interno si depositano i malesseri di bambini italiani poveri o di bambini stranieri abbandonati”.
Perché?
“Prendiamo un bambino extracomunitario che durante in una traversata ha vissuto violenze di ogni tipo: come si può pensare che non abbia delle difficoltà? Oppure prendiamo dei bambini con delle sindromi che i genitori non sono in grado di curare perché indigenti: spesso questi soggetti vengono sedati e fatti stare in comunità. Ci sono varie situazioni di disagio, le quali, messe insieme, trasformano questa situazione in una miscela esplosiva, che poi si riverbera nei comportamenti violenti di ogni minore”.
Perché vede l’ombra del business dietro questo fenomeno?
“Potrebbero esserci dei casi (di cui non possiamo avere notizia, poiché sono tutelati dalla privacy), che a mio avviso necessitano di un controllo più rigoroso, a cominciare dalle tariffe giornaliere che le singole comunità percepiscono ogni giorno. Poi, attraverso un controllo capillare, si dovrebbe sapere a chi fanno capo queste cooperative, a chi appartengono e se c’è una mano comune”.
In che senso “mano comune”?
“A me risulta che a Catania e provincia, tre o quattro cooperative appartengano alla stessa figura”.
Comunque ci saranno delle comunità che svolgono il loro ruolo in maniera onesta e ineccepibile.
“Non ho gli strumenti per controllare ciascuna comunità, ma vi assicuro che l’episodio della mamma costretta a nascondersi dietro le macchine per vedere i propri figli si è verificata in una di queste Case modello”.
Torniamo alla storia di Michele. Voi de “La città invisibile” vi opponete perché dite che Michele può restare benissimo con la sua mamma. Ne avete parlato con le assistenti sociali del Comune di Catania?
“Abbiamo parlato con due assistenti sociali, due bellissime persone, collaborative, che hanno visitato la nostra struttura. Ci siamo messi a disposizione e abbiamo proposto un progetto psicosociale di inserimento di questa famiglia. Un corso di formazione gratuito che non pesa sulle istituzioni. Il progetto prevede il coinvolgimento della madre alla genitorialità, anche con attività artistiche, in modo da recuperare delle qualità di carattere manuale per incentivarla ad intraprendere una propria attività anche economica. E prevede anche lo studio della musica da parte del bambino, con la presenza di educatori di un certo rilievo. Il progetto è piaciuto molto: ci siamo ispirati a un modello adottato dal ministero, Pippi (ispirato a Pippi Calzelunghe), prevede il recupero della famiglia. Purtroppo questo progetto a Catania non esiste, ma noi lo abbiamo proposto lo stesso. Il Tribunale ci ha concesso una proroga. Siamo stati convocati il 5 aprile per discutere di queste tematiche. Da un lato le assistenti sociali hanno svolto un ottimo lavoro, dall’altro sono state bloccate dalla loro responsabile che, per una serie di banali malintesi (che spero possano essere chiariti al più presto) dice di essersi sentita scavalcata. Purtroppo si è messa contro la decisione che riguarda il piccolo Michele”.
I Servizi sociali sono orientati per il ricovero di Michele nella comunità?
“Sì. Puntano sul fatto che il padre non è in grado di tenere il bambino. Ma se il padre starà in carcere almeno cinque anni (un arco temporale nel corso del quale il bambino diventa adolescente), qual è il problema? A San Cristoforo, a Librino, e nei quartieri poveri di Catania, moltissimi padri sono in carcere. Che facciamo, mettiamo tutti i loro figli in Comunità? La verità è che in questi quartieri poveri si innesca un processo di indebolimento continuativo. Bisogna spezzare questa catena”.
C’è un episodio legato a Michele che l’ha colpita?
“Tanti. Uno mi ha commosso particolarmente. Un giorno mi raccontava che aveva fatto un’amicizia bellissima con un coetaneo. A un certo punto questo bambino non si è visto più, lo avevano infilato in una struttura ‘totalizzante’, a tempo pieno, strappato dal contesto delle amicizie. Mentre parlava di questo bambino piangeva, non riusciva a frenarsi. Avevano strappato qualcosa di molto importante per lui, e mi chiedeva se potevo cercare l’amico. Michele ha una grande sensibilità. Pensate che in due giorni ha letto il primo capitolo de ‘I ragazzi della via Pal’ e ne ha parlato con entusiasmo a me e ai compagni. E però secondo i Servizi sociali ha dei deficit cognitivi”.
Non si può fare niente per trovare l’amico di Michele?
“Non è facile, ma possiamo provarci”.
Luciano Mirone
2^ Puntata. Continua
Lascia un commento...