“Michele ha dieci anni, è del quartiere catanese di San Cristoforo e dallo scorso autunno frequenta la scuola di musica ‘Falcone Borsellino’. Un giorno arriva piangendo con la sua mamma perché dice che vogliono ricoverarlo in comunità per minori, ma lui non vuole andare. E’ un bambino solare, positivo ed educato, un bambino come tutti gli altri. Non ha mai fatto niente di male, non ha mai rubato, non è aggressivo. È molto dotato musicalmente e suona le percussioni. Ma da qualche tempo è sottoposto all’attenzione dei Servizi sociali del Comune di Catania. Da quel momento abbiamo preso a cuore la sua storia, secondo noi Michele non merita di andare in comunità”.

Alfia Milazzo. Sopra: bambini di periferia

Da alcune settimane Alfia Milazzo, presidente della Fondazione “La città invisibile” di Catania, denuncia questa vicenda sui Social network. Non riesce a trovare una ragione plausibile per la quale questo bambino deve finire in una comunità per minori, anche perché, giura, non ci sono le condizioni perché questo succeda. Su questa storia abbiamo deciso di saperne di più con un’inchiesta a puntate nella quale, per completezza di informazione, cercheremo di sentire le altre campane.

Michele frequenta la Scuola di musica e di vita “Falcone Borsellino”, nata all’interno de “La città invisibile”. La sua storia, secondo Alfia, è emblematica di un sistema che a volte, “invece di aiutare le famiglie in difficoltà, ricovera i bambini nelle comunità per minori”. La presidente de “La città invisibile” snocciola dei dati: “Ogni comunità che esiste nel nostro Paese percepisce dai Comuni cifre che, in base alle possibilità di bilancio, oscillano dai 40 ai 400 Euro al giorno per minore. Nelle città del Sud si versano mediamente da 100 a 150 Euro, ma ci sono comunità del Trentino che ne  percepiscono anche 400. Nel caso di ricovero di Michele, il Comune di Catania ne dovrebbe versare 79. In un mese sono 2mila 400 Euro. E stiamo parlando di un solo bambino. Immaginiamo il giro di soldi”.

Come nasce la storia di Michele?

“Dal giorno dopo ci siamo attivati per saperne di più, e abbiamo scoperto che qualche tempo prima, la sorellina di Michele era morta per un caso di malasanità. Questo aveva provocato un trauma nella famiglia. La madre era andata in depressione, il fratello maggiore era finito in comunità, anche perché era affetto da una malattia e la madre non poteva occuparsi di lui. Una situazione molto travagliata, aggravata dalla povertà. A un certo punto i genitori si separano. Qualche tempo dopo la madre va a convivere con un altro uomo: una brava persona, un lavoratore, che la tratta bene e si prende carico dei figli. Contemporaneamente il Tribunale decide che i bambini, metà della settimana devono passarla col papà. E però il papà a un certo punto si mette nei guai perché, non avendo trovato lavoro, è stato arrestato per detenzione di marijuana. Questo causa un altro trauma, in quanto i bambini con lui avevano un rapporto affettivo molto forte. La mamma, comunque, è costantemente presente dando sempre il suo contributo per i figli”.

Però c’è un problema di depressione.

“La depressione è finita, si è risolta anche grazie all’intervento dei Servizi sociali del Comune, che l’hanno aiutata. Quindi lei, ricostituendo il nucleo familiare con un altro uomo, ha ritrovato la sua serenità. Il bambino a Scuola di musica viene sempre pulito, ordinato, tranquillo, non mostra mai segnali di aggressività. La verità è che la madre è stata colpita pesantemente con la morte della figlia: chiunque, al suo posto, avrebbe avuto difficoltà ad affrontare certi problemi. Il fatto che abbia tentato di riscostruirsi una vita, soprattutto per il bene dei figli, è una cosa estremamente positiva”.

Catania, scorcio del quartiere San Cristoforo

E Michele?

“Abbiamo constatato che non corre condizioni di pericolo a casa della madre. E’ pulito, nutrito, seguito e frequenta la quinta elementare. Se la madre lo accompagna ogni giorno da noi, vuol dire che ha un atteggiamento di attenzione nei suoi confronti”.

Sì certo, ma se si è deciso di mandarlo in comunità qualche motivo deve pur esserci.

“Quando ci sono questi problemi in famiglia, la prima reazione che scatta in un minore è la rabbia, l’irrequietezza. Un atteggiamento normale in un bambino, il primo sintomo di una situazione che non va. Michele ha trascorso i primi anni delle elementari con questi problemi, al punto che gli hanno affiancato un insegnante di sostegno: il bambino ha sicuramente bisogno di essere accudito, anche per mancanza del padre. Ma da qui a dire che si tratta di una situazione grave ne corre”.

Perché?

“Nella sentenza del Tribunale dei minori abbiamo letto che i Servizi sociali del Comune sostengono che il bambino presenta un ‘lieve deficit cognitivo’. Contestiamo questo giudizio: un bambino che nell’arco di un’ora apprende così velocemente la musica, può darsi che non sia portato per certi tipi di studi, ma se per altri è un fenomeno bisogna stimolarlo sulle cose per le quali dimostra passione e tendenza”.

Un’altra immagine di San Cristoforo

Il “lieve deficit cognitivo” giustifica il ricovero in comunità?

“La sentenza lo considera uno dei motivi. Un altro è la vicinanza col padre, ma il padre è in carcere. Quindi, a nostro avviso, questi due motivi sono decaduti. Il terzo sarebbe lo stato di ‘incapacità’ della madre. Contestiamo anche questo: abbiamo visto l’attaccamento di questa donna verso il bambino, ma soprattutto il fatto che lei ha una cura particolare nei confronti di Michele”.

Perché vi opponete in maniera così forte al ricovero in comunità? Una comunità non ha gli strumenti per mantenere un bambino e recuperarlo?

“Da quasi settant’anni esistono degli studi interessanti sull’argomento. Uno psicologo austriaco, René Spitz, durante la Seconda guerra mondiale, ha studiato il caso di trenta bambini ricoverati in un orfanotrofio. Di questi, ventisette sono deceduti non per carenza alimentare, ma per deprivazione affettiva della mamma. Studi più recenti dell’Università di Boston hanno confermato queste teorie. In Italia c’è una legge, la 149 del 2001, che ha acquisito questi dati scientifici: l’articolo 1 stabilisce che il minore deve vivere con la sua famiglia. E che i Comuni, le Regioni e lo Stato devono fare di tutto per raggiungere questo fine. Qualora vi siano cause gravissime di vita o di morte, la prima soluzione (prima della comunità) è quella dell’affido familiare”.

Cioè?

“Ci sono delle famiglie che, attraverso il Tribunale per i minorenni, si rendono disponibili a tenere con sé per brevi o per lunghi periodi un bambino. Lo scopo è quello di tenere ‘in cura’ la famiglia di origine, aspettare che questa si ricomponga e risolva i suoi problemi, e nel frattempo generare nel minore la fiducia nel nido che ha perso”.

Perché la comunità non va bene?

“La comunità è l’estrema ratio, ma prima ci sono le famiglie affidatarie. Nel caso di Michele, secondo noi, va bene la famiglia della madre. Con le cifre che si dovrebbero erogare alle comunità, perché non si aiutano le famiglie in difficoltà? Perché con un contributo anche inferiore e congruo non si aiuta la famiglia di Michele a sviluppare quella dignità che le è mancata?”.

Luciano Mirone

1^ Puntata. Continua