A un certo punto Attilio Manca sparì dai radar della Procura di Viterbo. Accadde tredici anni fa, l’11 febbraio 2004, giorno in cui, secondo le ricostruzioni medico-legali, il trentaquattrenne urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) morì. E però, anche sul momento del decesso, esiste più di una contraddizione, dato che quel momento potrebbe essere individuabile in un arco temporale che va dalle ultime ore dell’11 febbraio fino al momento del rinvenimento del cadavere: circa le 11 del giorno successivo, quando Attilio Manca fu ritrovato sul suo letto, il volto massacrato, una pozza di sangue sul pavimento, due siringhe con tappi salva ago e salva stantuffo ancora inseriti, uno o due buchi al braccio sinistro, malgrado il suo conclamato mancinismo.
Ma in ogni caso, è sull’ultimo giorno di vita del medico siciliano (da due anni in servizio presso l’ospedale di Viterbo) che gli inquirenti laziali non hanno mai ricostruito nulla. Eppure è da lì che bisogna partire.
In modo incredibilmente approssimativo sappiamo cosa Attilio Manca ha fatto nei giorni precedenti e quello che è successo dopo la morte, ma non abbiamo contezza su quel misterioso 11 febbraio, come se una lastra opaca ci impedisse di vedere e di capire.
Sappiamo che il pomeriggio del giorno prima il giovane medico – dopo aver pranzato a casa di una collega – fece un misterioso quanto improvviso viaggio a Roma in seguito alla telefonata intercorsa fra lui e tale Salvatore (che gli inquirenti identificano in Salvatore Fugazzotto, un amico barcellonese, nonché figlioccio di cresima del cugino di Attilio, Ugo Manca, coinvolto in questa vicenda e considerato dalla magistratura e dalle forze dell’ordine organico alla mafia di Barcellona.
In base alla testimonianza della collega che lo ospitò per il pranzo, sappiamo che quella telefonata lo turbò molto e sappiamo che immediatamente Attilio prese il giubbotto e partì. Il suo viaggio nella Capitale è caratterizzato da alcune telefonate a colleghi di Viterbo per conoscere l’esatta ubicazione di alcune vie del centro che pure egli doveva conoscere bene, dato che aveva trascorso dieci anni a Roma, fra lezioni ed esami all’Università Cattolica del Sacro Cuore e l’inizio della carriera al policlinico “Gemelli”. Perché quelle telefonate apparentemente inutili? L’interpretazione della famiglia è che Attilio volesse lasciare delle tracce del percorso che stava facendo, come a dire: seguite questa pista.
Sappiamo che avrebbe incontrato una donna, Monica Mileti (a farli conoscere, alcuni anni prima, era stato un altro barcellonese, Guido Ginebri, appartenente allo stesso giro di Fugazzotto e di Ugo Manca), ma non sappiamo il motivo per il quale l’avrebbe incontrata.
Gli inquirenti di Viterbo sono certi che nel corso di quell’appuntamento Monica vendette ad Attilio la dose di eroina che lo avrebbe portato alla morte, ma non hanno lo straccio di una prova. La Mileti, anni prima, aveva avuto sì un problema di droga, ma la motivazione appare talmente generica (“per non avere rispettato la legge sugli stupefacenti”) che imbastire un’accusa così grave a suo carico sembra una forzatura. A meno che non ci sia dell’altro, che non conosciamo.
Dopo la morte di Attilio Manca venne eseguita una perquisizione a casa della donna: furono trovati un cucchiaino sporco di sostanza nerastra (per gli inquirenti era droga, ma non risulta che siano mai state eseguite delle analisi) e delle siringhe da insulina dello stesso tipo di quelle trovate a casa dell’urologo, fatto “determinante” che portò gli inquirenti a chiudere il cerchio.
Il problema è che a casa della Mileti di droga non ne fu trovata. E neanche bilancini, bustine, involucri, e danaro in dimensione abbondante. E allora? Il mosaico venne completato con un’altra “prova inoppugnabile”: Attilio ai tempi del liceo si faceva le canne. Quindi…
Egregio dottore, Attilio Manca non è mai andato oltre gli spinelli, lui odiava perfino le medicine. Parola di un altro “grande amico” di Attilio: Lelio Coppolino, anche lui di Barcellona (e siamo già a quattro soggetti di quella città), anche lui dello stesso giro degli altri tre, che in quelle prima battute dichiarò alla polizia che il suo vecchio compagno di liceo odiava la droga (almeno quella pesante).
Qualche tempo dopo, tuttavia, Coppolino ritrattò: mi ero sbagliato, Attilio era un tossico, usava eroina e si drogava sia nel braccio destro sia in quello sinistro.
La stessa versione dei tre tizi barcellonesi di cui sopra. Una versione che ripetono come un mantra anche oggi al “processo-farsa” (secondo la definizione di Angela Manca, madre del giovane urologo) che si sta celebrando a Viterbo, un dibattimento dal quale la famiglia della vittima è stata esclusa come parte civile con la motivazione che la morte di Attilio non ha cagionato danni ai genitori e al fratello.
Dunque nell’aula del Tribunale di Viterbo stanno sfilando gli accusatori di Attilio per celebrare il rito tribale del processo al morto, e non ad eventuali killer e mandanti, malgrado le dichiarazioni di ben tre collaboratori di giustizia che parlano di delitto di mafia riconducibile all’operazione di tumore alla prostata che Bernardo Provenzano subì a Marsiglia nell’autunno 2003 (nella quale Attilio sarebbe stato coinvolto), appena quattro mesi prima della morte dell’urologo.
Un processo “storico”, quello di Viterbo, sia perché contraddice i principi dello Stato di diritto che prevedono il contraddittorio fra le parti, sia per la vergognosa assenza della stampa nazionale che ha deciso di non accendere i riflettori su uno dei casi più clamorosi del dopoguerra.
Ma torniamo al pomeriggio del 10 febbraio. Attilio a Roma ci sta poco. Il tempo di un caffè ed eccolo, verso le otto di sera, di nuovo a Viterbo. In prossimità del suo appartamento incontra un collega che vive nello stesso condominio. Hanno una cena di lavoro fissata da alcuni giorni, ma Attilio non va. “Sono stanco, preferisco andare a casa”. Scambia qualche sms con un’amica e poi sparisce definitivamente dal radar. E siamo a circa trentanove ore dal ritrovamento del cadavere. Ancora c’è la giornata dell’11 febbraio, l’intera notte che segue, e il giorno del 12, fino alle ore 11. Cosa fa Attilio Manca in quei frangenti?
Possibile che non esista una sola traccia mediante la quale fare una ricostruzione delle sue ultime ore? Non è possibile, dice la madre. Dal giorno del ritrovamento del cadavere – quando il ricordo è nitido – lei giura di aver parlato telefonicamente col figlio l’11 febbraio, intorno alle 9 del mattino. Lei stessa – unitamente al marito Gino, che assistette alla telefonata – spiega che la polizia, in un primo momento aveva confermato questa chiamata, salvo a smentire tutto nei giorni successivi: “Angela Manca, per il dolore, ha sovrapposto la telefonata del giorno prima”, scrive la Squadra mobile di Viterbo. La chiamata dell’11 dunque non esiste. Eppure quella presunta conversazione – se vera – è di una importanza estrema: con un’indagine seria si sarebbe potuto scoprire il luogo della chiamata e da lì poter risalire alle persone che potrebbero essere state con Attilio in quel momento. Un altro mistero di una giornata che – nell’ambito di questa indagine – deve restare tabù, come tutto il resto.
Luciano Mirone
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