“Fino a pochi mesi fa mi ritenevo fortunata ad avere un lavoro, con uno stipendio regolare. Purtroppo questa certezza lavorativa è svanita, risucchiata da una gestione scriteriata e truffaldina dell’azienda, finalizzata esclusivamente all’arricchimento personale del nostro ex datore di lavoro”.

Comincia così l’appello di Valentina Borzì, una ragazza di 31 anni di Paternò – ex lavoratrice del call center “Qè”, localizzato alcuni anni fa in questa cittadina in provincia di Catania – che chiede alle istituzioni di potere esercitare un diritto sancito dalla Costituzione: quello di lavorare. Con questa missiva inviata al ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda; al vice ministro dello Sviluppo Economico Teresa Bellanova; al presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta, all’assessore regionale alle Attività Produttive Maria Lo Bello, ed inoltre  al Prefetto di Catania Silvana Riccio, al sindaco di Paternò Mauro Mangano e per conoscenza alle massime istituzioni nazionali e regionali, Valentina Borzì prosegue: “So bene che le istituzioni sono a conoscenza delle difficoltà in cui versa la popolazione del Mezzogiorno nel trovare un impiego. Forse però non sanno che al ‘Qè’ lavoravano anche padri e madri di famiglia; laureati che hanno messo da parte i loro sogni professionali per una ‘sicurezza economica’; persone diversamente abili che avevano l’occasione di mettere in gioco se stessi in campo professionale; giovani donne e uomini che hanno costruito nuove famiglie contando sugli introiti del proprio lavoro”.

“Tutti noi ci ritenevamo fortunati perché sapevamo che in un paese come il nostro, Paternò, e un po’ in tutta la Sicilia, le realtà lavorative sono limitate; le attività commerciali sono molto spesso a conduzione familiare; gli stipendi sono bassi e spesso tardano ad arrivare. Senza considerare poi, la grande piaga del lavoro nero. Questa fortuna, che dovrebbe essere un diritto, purtroppo è terminata.
L’assenza di tutele nel settore delle telecomunicazioni ha permesso al nostro ex imprenditore di ridurci così. Le gare al massimo ribasso spingono le committenti a delocalizzare o a subappaltare ad imprese, che hanno come unico obiettivo quello di lucrare il più possibile, per poi lasciare affondare la nave, non pagando contributi, tasse, stipendi e Tfr. Esattamente come è successo agli ex lavoratori del call center Qè di Paternò”.

Una manifestazione di protesta degli ex dipendenti del call center Qè di Paternò. Sopra: il call center Qè (foto Meridionews)

“Tutti questi lavoratori – prosegue Valentina – oggi si sentono affranti e disillusi verso il futuro, ma non hanno intenzione di arrendersi di fronte a questa situazione e sperano di avere giustizia con l’aiuto delle istituzioni”.

Attraverso questa lettera l’ex lavoratrice del call center di Paternò chiede alle istituzioni di fare quanto possibile per garantire l’impiego di quanti lavoravano al “Qè” di Paternò “per le commesse riguardanti i servizi Inps, Enel, Wind e Sky”, servizi cui era preposto il call center prima della chiusura.
A nome degli ex lavoratori “Qè” Valentina chiede “di interloquire con i vertici più alti delle istituzioni per arrivare a un epilogo positivo della vicenda” affinché “ci venga restituito il nostro lavoro che in questi anni abbiamo condotto diligentemente e professionalmente, anche quando, nell’ultimo periodo, non ci pagavano gli stipendi”.

Nella lettera Valentina dice di non aver perso né la fiducia, né la speranza, ed è per questo che chiede alle istituzioni “di accelerare i tempi”. “Il 28 Novembre – prosegue – siamo stati licenziati, dopo mesi di battaglie stremanti. Abbiamo organizzato manifestazioni, sit in e flash mob. Non passa giorno in cui non pensiamo a quello che abbiamo subito. Siamo stanchi. Vogliamo voltare definitivamente pagina. Vogliamo ripartire con una nuova realtà imprenditoriale, seria ed affidabile.
Rimaniamo pertanto in attesa di convocazione da parte della Regione”.

Barbara Contrafatto