Nino di Matteo è più utile a Roma o a Palermo? Questa la domanda che molti si pongono dal momento in cui, nella serata di ieri, hanno appreso che il pubblico ministero più famoso d’Italia potrebbe lasciare la Procura siciliana per andare a coprire uno dei 5 posti di sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia. E’ stata la Terza commissione del Csm, accogliendo la domanda dello stesso Di Matteo, a proporre all’unanimità al plenum di assegnare al super magistrato un incarico di cui si parla da tempo, ma che motivi burocratici e volontà non sempre unanimi – sia a livello politico, sia a livello di Csm – finora avevano impedito.

Adesso Nino Di Matteo pare davvero sul punto di trasferirsi nella Capitale. Quando, non lo sappiamo. Sappiamo che una decisione del genere arriva nel momento topico del processo Trattativa (che lui ha portato avanti, assieme ai colleghi Del Bene e Tartaglia) ma anche in un momento in cui i clamori di un attentato nei suoi confronti appaiono sopiti, con un livello di attenzione che comunque rimane alto.

Proprio per questo – a prescindere da come ognuno potrà pensarla – crediamo che sia giusto che il magistrato vada a Roma, specie se si considera che un progetto del genere fa parte dei suoi desideri.

Prima di tutto perché a Roma, teoricamente, egli non dovrebbe correre gli stessi rischi che corre a Palermo, e poi perché dalla Capitale potrà portare avanti un discorso strategicamente più organico rispetto a quello portato avanti nel capoluogo siciliano.

Rosario Pio Cattafi

Sul piano della sicurezza bisogna dire che la situazione non è affatto uguale a quella del 1992, anno delle stragi di Capaci e di via D’Amelio: se è vero che allora a Palermo ogni metro era presidiato da Cosa nostra che si muoveva indisturbata per compiere stragi e delitti eccellenti, è anche vero che oggi nel capoluogo dell’Isola la mafia non appare così forte come un tempo. Da qui la famosa frase di Attilio Bolzoni: “A Palermo c’è una mafia senza mafiosi”. Dove oggi c’è una mafia con i mafiosi è Roma. Non è la Palermo violenta di un quarto di secolo fa, ma è pur sempre una città irriconoscibile con un crimine che ha fatto un preoccupante salto di qualità.

Non pensiamo comunque che a Di Matteo interessi tanto la mutazione genetica della mafia nella Capitale. Crediamo che gli interessi riprendere il filo dell’indagine Trattativa per arrivare al cuore di un fenomeno che dalla postazione della Direzione nazionale antimafia potrà vedere in modo più completo.

Da quando dal periodo successivo alle stragi, i vecchi boss sono stati arrestati, la mafia palermitana si è inabissata, decidendo di tornare alle sue attività tradizionali (estorsioni, traffico di stupefacenti, riciclaggio), ma senza fare “scrùsciu”, rumore, bandendo del tutto il delitto eccellente, azione che attualmente non avrebbe più la forza di compiere senza i “grandi boss”, allora impegnati in una interlocuzione con lo Stato e oggi sempre più disperati mentre si vedono marcire in carcere.

Il problema è capire cosa sta succedendo fuori dal carcere, capire chi comanda, capire chi ha preso le redini dei Santapaola, dei Riina e dei Provenzano.

L’identikit del boss Matteo Messina Denaro. Sopra: il magistrato Nino Di Matteo

Due su tutti: l’imprendibile boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro e l’ineffabile boss di Barcellona Pozzo di Gotto Rosario Pio Cattafi, entrambi dotati di buona cultura (Cattafi è addirittura avvocato, Messina Denaro legge Svetonio), ottimo eloquio, grandi legami con la massoneria e i servizi segreti deviati.

Se qualcuno vuole capire il vero volto della mafia targata 2017 deve comprendere gli affari portati avanti dal capomafia di Castelvetrano attraverso prestanome, villaggi turistici, banche e società fittizie, o fare un salto a Barcellona, dove potrebbe pure incontrarlo Cattafi, dato che oggi l’”avvocato” è un uomo libero: il suo status di boss è stato provato fino all’inizio del Duemila, dopo è come se una cartina fumogena avesse avvolto molte cose, a partire dalla morte, nel 2004, dell’urologo Attilio Manca (attribuita a Cattafi dal collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, perché il medico sarebbe stato colpevole di aver scoperto la rete di alte protezioni eretta attorno a Bernardo Provenzano, operato nel 2003 a Marsiglia e curato in Italia proprio da Attilio Manca anche a Barcellona Pozzo di Gotto).

Per riprendere le fila su una Cosa nostra apparentemente finita bisogna indagare sulle trame imbastite da questi due raffinati strateghi del crimine che non puzzano di stalla come i predecessori, ma che nelle discussioni con le istituzioni parlano in corretto italiano e non disdegnano certe citazioni in latino.

Tutto questo Nino Di Matteo lo sa, sa dove mettere le mani e sa da dove deve ripartire. Ed è per questo che potrà lavorare in modo più efficace da Roma, come lui desidera. Ma ad una condizione: che non gli mettano il bastone fra le ruote come è successo con altri. La storia insegna.

Luciano Mirone