L’ex pm di Palermo Antonio Ingroia tira fuori dalla palude del silenzio una storia vecchia di anni e ripropone clamorosamente il caso di Attilio Manca all’opinione pubblica nazionale. Una storia ignorata in passato, malgrado l’anticipazione data da questo giornale già nel maggio 2016 con un titolo che non dovrebbe lasciare spazio ad equivoci: “Manca? Uccidetelo a Barcellona”. Nell’articolo si parla di un collaboratore di giustizia che dichiara che il piano di morte, in un primo momento, doveva scattare a Barcellona Pozzo di Gotto dove Attilio avrebbe trascorso le vacanze di Natale. Un particolare che il pentito avrebbe svelato diversi anni prima a delle fonti autorevoli, ma su cui nessuno ha mai ritenuto di indagare.

Un titolo di quattro parole che fa capire in modo chiaro – in tempi non sospetti – che nell’ambito delle indagini sulla morte di Attilio Manca c’è una vicenda su cui scavare, e sulla quale c’è chi conosce dei particolari importanti.

In un posto normale qualsiasi investigatore avrebbe convocato il giornalista per comprendere se si trattava di un visionario, magari ponendogli domande come queste: come e da chi ha saputo queste notizie? Quando è successo il fatto? Chi ne è al corrente? Chi è il pentito?, e tanto altro.

L’ex Pm Antonio Ingroia, avvocato della famiglia Manca. Sopra: Attilio Manca

Se la notizia era falsa, non sarebbe stato male procedere penalmente contro il giornalista. Se, al contrario, era vera si sarebbe dovuto andare fino in fondo. Invece niente. Si è preferito lasciare refluire tutto nella palude del silenzio, come il resto di questa storia.

Adesso c’è voluto un ex magistrato come Ingroia – avvocato della famiglia Manca, che da pochi anni affianca il collega Fabio Repici, impegnato in questo caso da tredici anni – perché la notizia venisse dissotterrata e portata ai magistrati della Procura di Roma, che ha titolarità sulle indagini dopo le omissioni, i depistaggi e le dimenticanze degli inquirenti di Viterbo.

Ma vediamo come si svolge la storia.

Settembre 2016. Il collaboratore di giustizia Giuseppe Campo – in carcere per associazione mafiosa, estorsione, rapina e traffico di stupefacenti – scrive a Ingroia dicendogli di sapere molto sulla morte di Attilio e svelandogli lo stesso particolare contenuto nel “pezzo” de L’Informazione: il medico doveva essere ucciso a Barcellona, quando sarebbe andato a trascorrere le vacanze a casa dai suoi familiari nei giorni fra Natale e Capodanno 2003. Ingroia, da grande investigatore che ha risolto casi considerati giudiziariamente “morti” come quello di Mauro Rostagno, drizza le antenne e capisce che non si tratta di una barzelletta.

8 novembre. Si reca in carcere e mette a verbale l’interrogatorio del collaboratore di giustizia. Campo gli dice di essere stato contattato dalla mafia barcellonese – segnatamente da Umberto Beneduce – per far fuori “un dottore” (senza che nessuno gli specificasse il nome). Addirittura il pentito dice che era stata procurata una moto di grossa cilindrata e un’arma per compiere la missione di morte.

Poi però il piano cambia, gli emissari gli spiegano di aver provveduto ad uccidere il “dottore”. Passa qualche tempo. Dalla televisione Giuseppe Campo apprende che proprio nel periodo in cui era arrivata quella proposta, a Viterbo era stato trovato morto un medico di Barcellona Pozzo di Gotto, e capisce anche che non si tratta di un decesso per overdose – come lasciano intendere gli inquirenti laziali – bensì di un delitto di mafia camuffato da suicidio, come dicono i familiari del medico. E allora collega il “dottore” con Attilio Manca.

Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone

Avvocato Ingroia, può raccontare i retroscena di questa svolta?

“Il collaboratore di giustizia Giuseppe Campo ha spedito una lettera dal carcere presso il mio studio legale dicendo di avere appreso dai giornali che sono il legale della famiglia Manca ed aggiungendo che conosceva il mio passato di pubblico ministero, raccontandomi di sapere cose importanti sulla scomparsa di Attilio Manca. Lui ha detto di sapere che si trattava di un omicidio, non di un suicidio per overdose, come accreditato in tutti questi anni dagli inquirenti di Viterbo. Sapeva che questa morte era collegata col caso Provenzano e che questa verità aveva cercato di consegnare più volte alla magistratura, ma inspiegabilmente non era mai stato interrogato”.

Le ha chiesto di incontrarla?

“Sì. Ho avviato la procedura prevista dalla legge chiedendo al magistrato di Sorveglianza di sentire il collaboratore in un carcere del Nord Italia. Campo ha raccontato questi fatti che ritengo di grande importanza: per la prima volta abbiamo una testimonianza più ‘ravvicinata’ rispetto alle altre”.

Cosa le ha detto Campo?

“Di essere stato incaricato direttamente di partecipare all’omicidio di Attilio Manca a Barcellona”.

Lei sa che la notizia è vecchia di alcuni anni? Come mai per parecchio tempo non è stata presa in considerazione?

“Il pentito mi ha detto di aver tentato in tutti i modi di fare conoscere queste cose  e di aver mandato della lettere alla magistratura: nessuno gli ha dato ascolto. Solo adesso, dopo che l’ho incontrato, la magistratura di Messina mi risulta che sia andata finalmente a sentirlo”.

Perché questo grande ritardo?

“E’ un passaggio che francamente mi manca, ho assunto la difesa della famiglia Manca da pochi anni. Ho cercato di esperire tutti i passaggi non appena ho saputo la notizia. Comunque è mia intenzione, nelle prossime settimane, incontrare il pm romano Palaia, incaricato di seguire il caso assieme a Michele Prestipino”.

Perché le dichiarazioni di Campo sono importanti?

“Innanzitutto perché non parla solo del contesto (ovvero il movente dell’operazione di Bernardo Provenzano a Marsiglia, cui sarebbe stato coinvolto Attilio Manca che potrebbe avere scoperto gli “alti protettori” del boss), ma di chi materialmente avrebbe eseguito l’omicidio, tirando in ballo il cugino di Attilio, Ugo Manca, vicino alla mafia di Barcellona, di cui è stata trovata una impronta palmare nell’appartamento viterbese del medico, e Carmelo Di Pasquale (cognato del boss di Terme Vigliatore Carmelo Vito Foti)”.

Questo che vuol dire?

“Questa a mio avviso è la quadratura del cerchio rispetto agli elementi acquisiti, sia dagli altri pentiti, sia dalle risultanze processuali”.

Secondo lei la dichiarazione di Campo sugli esecutori del delitto non contrasta con quanto detto dal collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, secondo il quale a commettere l’assassinio è stato un agente dei servizi segreti (su incarico del boss barcellonese Saro Cattafi) molto abile a camuffare un omicidio per un suicidio?

“No. Campo non esclude che al delitto possano avere partecipato altri soggetti, oltre a quelli che ha citato”.

Si è posto il problema che possa trattarsi di un depistaggio?

“Non è un depistaggio. Il depistaggio scatta quando le indagini sono rapide e dirette. In questo caso le indagini sono andate molto a rilento: non c’era niente da depistare”.

Tante volte, parlando delle indagini portate avanti dalla Procura di Viterbo, lei si è espresso in termini durissimi. Come giudica l’inchiesta della Procura di Roma?

“La Procura di Roma sta andando con i piedi di piombo, ma mi auguro che con questo nuovo elemento possa dare un impulso alle indagini”.

Intanto si è aperto procedimento per omicidio contro ignoti.

“E’ un salto di qualità importante, ma attenzione: ancora eravamo convinti che la Procura laziale stesse indagando attraverso il modello 45 per atti non costituenti notizie di reato. Invece da diversi mesi indaga per omicidio contro ignoti. Questa ipotesi di reato non nasce ora con le dichiarazioni di Campo, ma oltre un anno fa con quelle di D’Amico. Significa che a Roma qualcosa si sta muovendo. Mi auguro che l’iscrizione contro ‘ignoti’ possa diventare una iscrizione contro ‘noti”.

Luciano Mirone