Il battello scivola lentamente sulle acque gelide del Bosforo mentre all’ora del tramonto il canto del muezzin si sprigiona dai minareti di Istanbul e ricorda certe note antiche dei pescatori siciliani.
Neanche ventiquattr’ore sono passate dai trentanove morti della discoteca, e quaggiù, sul fiume più importante della Turchia, tutto sembra attenuato come i colori di questo scampolo di 2016 che appaiono gli stessi dell’alba del 2017. In questo momento molte cose assumono le sembianze kafkiane della sospensione e dell’incertezza.
Le uniche cose certe sono questo fiume che continua placidamente a scorrere, il sole che si perde dietro la basilica di Santa Sofia, quel gabbiano che dopo un’ampia giravolta vola in direzione della Moschea Blu e si perde fra la meravigliosa architettura bizantina e ottomana. Chissà perché la natura e l’arte infondono sensazioni di pace, di sicurezza e di benessere, mentre l’uomo ti dà una percezione di precarietà e di sgomento, specie in questa città dove da alcuni anni gli attentati non si contano più e il clima instaurato da Erdogan non è più quello democratico – seppure attraversato da alcune contraddizioni – instaurato da Mustafa Kemal Ataturk nel 1923, venerato ancora in tutto il Paese perché considerato “il padre della democrazia turca”.
La strage di ieri notte ha creato un tremendo orrore nell’anima, ha rafforzato la certezza di essere appesi a un filo, al punto da non riuscire a discernere il tramonto dall’alba, eppure anche quando l’essere umano attraversa il buio più pesto della ragione, pensa sempre (o forse si illude) di essere all’alba di qualcosa. E così stasera, mentre la ragione ti dice che l’umanità è al tramonto, qualcosa dentro di te ti porta a gettare il cuore oltre il tempo e di dire che comunque c’è sempre un’alba oltre le tenebre. Lo stato d’animo del lutto che viene superato dal pretesto più banale per continuare disperatamente a vivere.
Mentre il battello continua ad andare avanti e a costeggiare le mura dell’antica Costantinopoli che ormai fanno un tutt’uno con gli orrendi palazzi moderni che ormai sono il segno distintivo della nuova città e della nuova Turchia, ti chiedi chi, fra la ragione e la speranza, ha ragione. Alla fine rispondi che la speranza ha ragione solo se la ragione le dà una ragione per sperare. Un concetto un po’ astruso, che appunti velocemente in un taccuino mentre l’aria fredda attraversa il tuo volto e tu continui a guardare con stupore e pessimismo una delle città più belle e misteriose del mondo.
La ragione non vede positivo, lo avverti man mano che senti i commenti della gente a bordo di questo battello. Questo battello, in fondo, è la metafora del mondo occidentale diviso in due.
Ci sono quelli dei bombardamenti di massa, quelli che gli islamici sono tutti uguali, quelli che bisogna bombardarli tutti e così sconfiggiamo il terrorismo; e quelli che sostengono il contrario, ovvero che non è vero che sono tutti uguali, e che comunque gli integralisti li trovi anche nel mondo occidentale, seduti a una scrivania, col doppiopetto e la cravatta, mentre fabbricano armi, scavano un pozzo di petrolio, alzano muri, danno l’ordine di bombardare una Nazione.
E man mano che si parla, man mano che la ragione fatica a prevalere sull’istinto, affiora in te il convincimento che le guerre moderne e il terrorismo siano figli di un genitore degenere che si chiama capitalismo selvaggio. Il quale, da una trentina d’anni, ha partorito il terzo mostro: l’effetto serra. Un figlio che gran parte dell’umanità non vede perché cresce lentamente senza manifestarsi a casa tua: l’uragano che uccide centinaia di persone in una parte del mondo non viene collegato con il bombardamento o la strage terroristica che colpisce nella parte opposta. I fenomeni vengono scissi. E del resto se l’informazione viene scissa, è normale che il collegamento non c’è. Morale della favola: la colpa dell’uragano è del Padreterno, quella del terrorismo dei fondamentalisti islamici. L’eterno alibi di chi ha bisogno di un capro espiatorio per scaricare le proprie responsabilità.
Intanto mentre vediamo la sagoma del Topkapi, affiora una vecchia tesi: il mandante dell’attentato alle Torri Gemelle è stato Saddam Ussein, quindi ha fatto bene Bush jr.a bombardare l’Iraq.
Da qui il discorso scivola sulla politica, cosa-ha-fatto-Obama-in-politica-estera?/Meno-male-che- ha-vinto-Trump.
Una serie di teorie che confonderebbero chiunque. La tensione sul battello sale, e man mano che si procede, certe tesi prendono il sopravvento.
Qualcuno timidamente parla delle elezioni statunitensi: se-la-Russia-è-riuscita-ad-entrare-nel-sistema-informatico-americano-vi-rendete-conto-cosa-può-accadere-in-futuro?
Vuoi-dire-che-la-Clinton-ha-perso-per-questo?
Non-lo-so-però…
E-allora-stai-zitto.
E-vi-immaginate-Trump-amico-di-Putin?
E-vi-immaginate-che-la guerra-non-si-farà-più-con-le armi?
E-come-allora?
Basta-bloccare-il-sistema-informatico-di-una-Nazione-e-ricattarla/Trentuno-diplomatici-russi- rimpatriati-per-questo-non-sono-una-barzelletta.
A un certo punto si sente un botto, ti svegli e ti accorgi che era tutto un sogno (o forse un incubo). Guardi la sveglia: le tre di notte di un capodanno nel quale, per strada, dei bontemponi salutano il nuovo anno con i fuochi d’artificio anche fino alle cinque di mattina. Prima di riaddormentarmi penso a Gino Strada, alla la comunità di Sant’Egidio, a don Luigi Ciotti, al Papa, ai lampedusani, alle tante associazioni di volontariato che operano in silenzio per accogliere e aiutare gli altri. E penso pure che verrà un giorno in cui saranno loro a prendere in mano le redini del mondo. I potenti non capiscono, non possono capire.
Luciano Mirone
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