Hai presente una panchina ai giardini pubblici? Alla fine fra quelle alla stazione e quelle di fronte al supermercato ho scelto questa. C’è meno confusione e meno possibilità di dovermela contendere con gli altri, soprattutto la sera, quando può succedere di tutto, specie se si è bevuto. E poi ai giardini pubblici, dove mi sono sistemato, è più riparato, ci sono lo zoo e il museo, il vento non ti prende d’infilata come alla stazione.

Mi ci sono sistemato alcuni anni fa, è la mia casa. Come si fa a spiegare? Ognuno ha la sua casa: gli uccelli il loro nido, i lupi la loro tana, i vermi la loro terra, voi i vostri appartamenti.

Noi clochard siamo un’altra cosa, quindi anche una panchina ai giardini pubblici può andar bene. Molti ci ritengono una razza inferiore rispetto alle persone comuni ma io, con rispetto parlando, credo che non sia così: siamo semplicemente diversi. Non è facile spiegare.

Lo dico io che fino a trentasette anni facevo una vita brillante. Facevo l’imprenditore. Sveglia alle 6,30 del mattino, giacca e cravatta, ufficio alle 8, pausa pranzo alle 14, e poi lavoro fino a sera. L’indomani le stesse cose. Fino a quando l’azienda è fallita.

Quando mi dicevano che i problemi economici possono essere l’inizio della fine non ci credevo. Mi sono ricreduto. Se sei uno forte superi tutto, e ricominci meglio di prima, ma se sei debole…

Vieni preso da un senso di fallimento e di frustrazione che non immagini, pensi di essere un incapace, un cialtrone, un buono a nulla, avverti il senso del vuoto e all’improvviso ti accorgi che la tua proverbiale sicurezza non esiste più, ogni giorno perdi padronanza di te. Ti parlano e cominci a perdere il senso delle parole, non le associ alle cose, di giorno in giorno si svuotano di significato.

In bocca cominci a sentire un vago sapore di amaro. Hai sempre sete, come se la vita ti stesse succhiando la vita. La vita che succhia la vita… Non è facile da dire. E allora quella sete l’appaghi con quello che prima non immaginavi di usare: l’alcol. Prima qualche sorso, poi un bicchierino, quindi intere bottiglie. All’inizio pensi di controllarlo, poi ti accorgi che ti sei fatto risucchiare.

Uno con le palle reagisce, resta tramortito dalla vita e si sbronza per una notte, gira ubriaco per la città, urla, ferma la gente, e alla fine, esausto, si butta sul selciato, ma porca puttana, almeno al risveglio vede la luce dell’alba: si inventa un’illusione, una speranza, una voglia determinata di mandare affanculo i sani principi e di diventare, una volte per tutte, cattivo.

Chi come me, nei momenti di buio, non è mai riuscito a vedere la luce, non ha illusioni. La persona debole è questa.

Detta così sembra banale, ma sono tante le cause per finire così. Il lavoro, le incomprensioni con la moglie e i figli, il divorzio, l’allontanamento degli amici più cari.

E alla fine, senza sapere come e perché, ti ritrovi a dormire su una panchina che a poco a poco diventa il tuo mondo fatto di cartone, di giornali e di stracci. Le nostre pareti, i nostri tetti, le nostre coperte, i nostri materassi, le nostre scarpe, i nostri vestiti. Non si può capire la felicità che provi quando, nella discarica abusiva, trovi l’imballaggio di un frigorifero o di un televisore.

Ma quando arriva l’inverno, quando arrivano quelle gelate, pensi che il Signore ti ha voluto castigare per le tue debolezze. E allora senti la disperata esigenza di ripararti da qualche parte. È indescrivibile quando il gelo ti penetra nelle ossa, nei muscoli, nel cervello, nel sangue. Pensi di lasciare la panchina per qualche ora. Il tempo di fare sciogliere il ghiaccio che si è accumulato nel corpo e domattina-alle-sei-mi-riapproprio-della-panchina. Sì, perché il pericolo è che qualcuno si possa fregare il tuo mondo. Ed è una corsa continua. Un presidio continuo di notte e di giorno se abbandoni la postazione, magari per rovistare oltre il tuo raggio d’azione.

Tutto cambia in primavera. Dalla panchina vedi le gemme che si gonfiano nei rami, i fiori che sbocciano sotto di te, le tartarughe che si svegliano dal letargo e ti chiedono da mangiare.

E poi l’estate. Ah l’estate… Una goduria trascorrere certi pomeriggi a respirare quell’aria profumata, mentre le cicale cantano annoiate. È il momento più bello e più poetico per noi.

Ma ora è diverso. In questi giorni di freddo sono stato malissimo e non so come finirà. In mezzo a tanta indifferenza, c’è molta bella gente in giro che cerca di aiutarti. Se non dovessi farcela, salutami affettuosamente tutti, compreso il Papa, che è bravo, e ringraziali da parte mia.

Luciano Mirone