Trovo il solito Riccardo, il divano-letto in redazione (una consuetudine che dura fin dai tempi de “I Siciliani”, consolidata poi ad “Avvenimenti”), le riunioni con i ragazzi, la pipa che tormenta dalla mattina alla sera, i progetti per il futuro. È il destino di Riccardo: quello di essere sempre a metà fra il cielo e la terra, la luce e la tenebra, una bella giornata di sole e la tormenta. Il destino di tenere la schiena dritta in una Terra nella quale nessuno è disposto a scommettere un centesimo sulla realizzazione di un giornale veramente libero, veramente democratico, veramente antimafioso.
“Non paghiamo la luce da un paio di mesi e siamo in arretrato con l’affitto. Rischiamo di essere buttati fuori”. E dopo? “Spero che qualche amico mi ospiti a casa sua”. È dal 1979 – da quando è arrivato a Catania – che Riccardo alterna il divano della redazione (a volte anche il sacco a pelo) alla casa di qualche amico. Prima del 5 gennaio era Antonio Roccuzzo a ospitarlo, successivamente Rosanna Fiume, e così via. Quando si mise con Antonella, per un periodo andò a vivere con lei in una casa del quartiere di Cibali: una volta lo andò a trovare Nando dalla Chiesa. Riccardo gli aprì con la candela in mano perché da alcuni giorni l’Enel aveva tagliato la luce di casa sua.
Orioles è uno dei personaggi più pazzeschi che abbia mai incontrato. Una sorta di partigiano dei giorni nostri. Che può piacere o no, ma sulla cui coerenza nessuno ha mai dubitato. Ha sempre tenuto il timone a dritta, a prescindere dai venti che in questi anni sono spirati da destra o da sinistra, a prescindere dalle sirene che hanno cantato da questo o da quel Palazzo.
È stato lui, dopo il 5 gennaio, a tenere insieme tutti quei ragazzi arrivati in redazione senza alcuna esperienza, ma con la determinazione di portare avanti una battaglia civile. Ogni sera riuniva una trentina di carusi – Gianfranco, Antonella, Massimo, Salvo, Edoardo, Carmen, Walter, Ester, Rosalba, “Cotoletta” – e cominciava a fare incontri di giornalismo: come si scrive un articolo, come si fa un titolo, come si prepara una inchiesta, una copertina, un occhiello. E poi la storia dei primi giornali italiani e inglesi, la lettura dei quotidiani e dei settimanali, il metodo di scrittura di Biagi, di Bocca, di Montanelli, del direttore.
E poi gli aneddoti. Di quando era a Lotta continua, di quando il suo professore di Milazzo lo incontrava e gli chiedeva: “Orioles, che fa la lotta?”, e lui: “Continua…”, di quando diventò giornalista professionista attraverso una borsa di studio, di quando arrivò a Catania da Milazzo, di quando per uno scherzo lo mandarono a intervistare una puttana, di quando una volta Pippo Fava bloccò la rotativa per chiarire un malinteso con lui. Era lui a prendersi la corriera per costituire le redazioni di “Siciliani Giovani” nei paesi più sperduti della Sicilia.
Per capire chi è Riccardo bisogna raccontare un episodio: dopo la morte del direttore, fu chiamato da un grande giornale nazionale. Per un’assunzione. “Grazie, ma qui siamo in guerra, non posso”. Rispose così. Senza fronzoli, senza retorica, asciutto. Rifiutò uno stipendio sicuro e preferì restare a Catania. Dove faceva la fame. Quando gli ricordo questo fatto dice: “E’ una storia personale, non scriverla”. Alla fine ne parliamo. “Raccontata così non è precisa. Tradotta in altre parole, quella proposta voleva dire: ‘Vuoi lasciare i tuoi amici che stanno rischiando la pelle per andare a lavorare da qualche altra parte?’. Come potevo? Mi sarei sentito uno stronzo. Non è un merito particolare , chiunque avrebbe risposto così”. Fa una pausa, batte la pipa sulla scrivania, riprende a parlare: ‘Quindici giorni dopo la morte del direttore andai a Milazzo. Alla stazione venne a prendermi Dario con un compagno pelato campione di tiro a segno. Capisci? Dario si portò ‘u compagno ‘cca pistola”.
Ride a crepapelle. Poi prosegue. “Mio padre era un tipo piccolo, compito, formale. Ogni giorno portava in giro il cane e lungo il tragitto passava da due o tre bar. Quel giorno gli avevo dato appuntamento al bar Diana dove, come al solito, mi raccontò i pettegolezzi del paese. era priàto, contento, perché facevo il giornalista. Mi faceva un sacco di predicozzi ma era orgoglioso. C’erano i camerieri, buongiorno professore. E lui gonfiava il petto, questo è mio figlio, chiddu che fa ‘u giornalista a Catania. ‘Sai Riccardo, la baronessa si è messa con quello… Prendiamo qualcosa?’, ‘Una vodka’, ‘Quasi quasi ne piglio una anch’io’. E lui, a un certo punto, poverino, si interruppe, ci fu un attimo di silenzio, e poi: ‘Riccardo, ma per forza devi tornare a Catania?’, ‘Papà, è una guerra’. Rimase zitto per qualche secondo: ‘Va bene’.
Riccardo tornò a Catania. Prima di mettersi davanti al computer passeggiava nervosamente per ore nel corridoio, alla ricerca di qualche ispirazione, masticava la pipa, ogni tanto aspirava il tabacco, e poi, preso dai furori astratti, cominciava a pigiare sui tasti. Nei momenti liberi si dedicava a tradurre i lirici greci. Sempre senza vocabolario. Una volta raccolse una settantina di frammenti d’amore, li rilegò e li dedicò a una ragazza di cui si era follemente innamorato: “Questo libro si chiama … e ha occhi neri”.
“I miei maestri sono stati Gianfranco, Francesco, Cotoletta, tutti quei ragazzi venuti dopo la morte del direttore. Ragazzi che senza sapere niente, immediatamente, si sono schierati, hanno fatto delle cose tipo – che ti posso dire? – Torino sotto il fascismo. Ecco. Questa è l’eredità che ha lasciato Giuseppe Fava.
Ricordo Edoardo Privitera, il figlio di un bottegaio catanese. Fu tra i ragazzi che insistettero per firmare le cambiali per salvare il giornale. Non fu l’unico, furono tanti. Io la mia parte la pagai quando lavorai ad ‘Avvenimenti’. Ma lui doveva sposarsi con Carmen: il matrimonio fu rimandato di un anno perché, dovendo rilevare la bottega del padre, alla Camera di commercio risultava protestato. Ogni 5 gennaio viene alla lapide ed è orgoglioso di essere stato ne I Siciliani. Avrebbe il diritto di inseguirti con un legno, di rinfacciarti tutto, di non guardarti più in faccia. Invece non ha mai recriminato, con dignità ha capito la situazione ed è stato uno dei tanti a pagare un prezzo”.
“A Catania ho visto crescere tre generazioni di giovani. Eppure questa non è Bologna, è Catania. Ma abbiamo avuto dei ragazzi migliori di quelli di Bologna, anche più colti, più densi. Ci sarà pure qualcosa che produce tutto questo”.
Poi il discorso scivola inevitabilmente sul direttore. Riccardo, come sei cambiato da quando è morto Fava? “Non sono cambiato quando l’hanno ammazzato. Sono cambiato quando l’ho conosciuto. Ero diventato professionista da poco e dovevo scegliere: o andare a ‘L’Ora’ di Palermo oppure a ‘I Siciliani’. Quando conobbi il direttore decisi di restare a Catania. A quest’ora avrei fatto vent’anni a ‘L’Ora’ e sarei stato assunto alla Rai e oggi sarei un tranquillo giornalista alla soglia della pensione. Da che ero un fighetto della sinistra con la puzza sotto il naso, dimenticai la lotta di classe e mi misi a fare la lotta alla mafia”.
“Fava era figlio di un maestro di scuola. Aveva una cultura eclettica, bella, con un solido background umanistico, a quattordici anni aveva letto tutto Maupassant. Nei suoi racconti c’è la puttana, l’emigrato di Raddusa, il bigliardo. Se vuoi sapere cos’era Roma negli anni Settanta devi leggere Pasolini perché Pasolini girava di notte , conosceva il degrado e le cose più misteriose di Roma. Se vuoi sapere com’era Catania devi leggere Fava. Non era un politico, era un ragazzo curioso. Era il ragazzino di paese che arriva in città, strabuzza gli occhi e si meraviglia: ‘Ma come è possibile?’.
“Quando è cresciuto (parlo dei primi anni quando era al giornale ‘La Sicilia’) ha sgamato subito la partita: da un lato i padroni, dall’altro i servi. Tu puoi far parte dei padroni perché sei colto e intelligente, però onestamente è una cosa bruttarella, oppure puoi andare a cavallo, non so se rendo l’idea: ecco, lui è il rivoluzionario dell’Ottocento , quello che fa la rivolta contadina. Non è Tony Negri, è Pancho Villa, Zapata, Mazzini. Come tutte le persone di una certa età, amava raccontare. I suoi cavalli di battaglia erano Luciano Liggio e gli zolfatari di Palma di Montechiaro. Si divertiva a raccontare Liggio, lo prendeva per il culo. Ma quando parlava dei bambini di Palma di Montechiaro che si calavano nelle miniere di zolfo si induriva in faccia, si incazzava. La considerava un’offesa personale, uno sfregio”. E questo ti piaceva? “Non so se mi piaceva, ma mi colpiva. Negli ultimi due anni ho seguito tredici tesi di laurea su Pippo Fava, divise fra studenti del Nord e del Sud. Ma mi chiedo: perché tutti questi ragazzi, dopo anni che è morto, fanno le tesi su Pippo Fava? Non lo so. Intanto la fanno. No, voglio dire, nessuno appende nella propria stanza i manifesti di Fidel Castro o di Ho Chi Minh. E sai perché? Perché hanno vinto. Di Che Guevara sì. Perché Che Guevara è morto da rivoluzionario. Oppure: perché fare delle tesi su Pippo Fava e non su Chinnici o suo giudice Costa? Credo che si sia qualcosa di molto forte. L’antimafia può essere un fatto di legalità, rimettere a posto le regole violate, ‘Vogliamo la Costituzione. Abbasso la tirannia, il re, eccetera’. Ma l’antimafia può essere qualcosa di più radicale del tipo ‘Vogliamo la terra, vogliamo vivere meglio’, non so se rendo l’idea. Sono due cose differenti. La prima è la cosa seria e normale dei paesi civili. La seconda qualcosa di profondamente diverso: non è levare Provenzano e tornare alla normalità. È un altro mondo. È l’utopia che diventa realtà. Pippo fava lottava per questo. Prendiamo le basi Nato di Comiso. Arrivo io e ti faccio l’inchiesta seria con i dati, gli atti giudiziari, le interviste. Arriva lui e ti parla della salsiccia di Comiso per raccontare come sta cambiando una civiltà. È lui che colpisce allo stomaco, non io. Il suo era un discorso profondamente politico, nel senso nobile della parola. Questo è Pippo Fava, uno che stava fuori dai salotti della sinistra perbene”.
“A Catania, politicamente parlando, non hai un popolo, hai una plebe. Eppure questa plebe in certe occasioni è capace di fare cose enormi. Io ricordo il minuto di silenzio allo stadio il giorno dopo l’uccisione del direttore. Ci fu un minuto serio e commosso perché i catanesi volevano dire qualcosa. Non viva la legalità o viva lo Stato, se ne strafottevano della legalità e dello Stato. Volevano dire: è morto uno di noi. È stato un momento alto, anche politicamente. Vuol dire che questo popolo non è rozzo. E’ deprivato della politica, non ha mai avuto un sindacato, una sinistra, un partito. Fava è stato ammazzato come leader politico, non come giornalista”.
“Lui si è saputo collegare ad alcune cose profonde di questa Terra. Profonde e antiche. Mi ricordo una volta: l’eruzione. Avevo il permesso della prefettura. Le strade erano bloccate, noi avevamo il fuoristrada ed era notte. Tu vedevi certe figure che uscivano dai cespugli e si buttavano davanti alla macchina: erano i ragazzini di Catania, con lo zainetto, che volevano vedere l’eruzione e quindi cercavano di farsi prendere a bordo abusivamente. Ed erano belli e felici. Io ero spaventatissimo perché ero una persona civile e, davanti all’eruzione, avevo paura, il mio istinto era quello di scappare. Loro erano antichi, primitivi, cioè avevano questo rapporto antico, vecchio, familiare con la loro montagna, ‘a Muntagna”. Che c’entra tutto questo con Fava? “Aveva capito che i siciliani sono belli. Hanno qualcosa di molto bello dentro, e di molto raro perché questa è una Terra antica. Aveva compreso che c’era qualcosa di molto profondo nei siciliani. E a questo faceva riferimento. Il giornale era amato per questo. Perché toccava corde molto profonde: il catanese, oltre a temere i cavalieri e a sottomettersi a loro, dentro di sé li pigliava per il culo in quanto erano grezzi, pesanti, ridicoli, erano un’altra cosa rispetto alla città. Fava lo aveva capito e lo scriveva. Questo non si potrebbe dire oggi perché la città è cambiata”.
“La verità è che molti anni fa abbiamo avuto una grande occasione di rivolta politica con I Siciliani. Eravamo giovani e non l’abbiamo saputa sfruttare: c’è stato chi ha fatto il generale dell’esercito, chi il nobile, chi ha voluto tirare le pietre. Non siamo stati all’altezza. Pazienza. Ma i mafiosi siamo riusciti a cacciarli. Eravamo imbranati, straccioni, ma tra me e i cavalieri o Santapaola ho vinto io. Io sono a Catania, loro se ne sono dovuti scappare”.
“Due anni fa, assieme alla Carovana antimafia, sono andato nel paese del direttore: Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa. È un bellissimo paese di collina, con il teatro greco in cima, molto civile, barocco. Era una fresca notte d’estate. Silenziosa. Andai dal fornaio a comprare le arancine al capretto. Poi vidi per la prima volta la casa del direttore, in piazza Vittorio Emanuele. Una casa né povera né ricca. Dovevo andare a dormire da un amico, ma mi sedetti su una panchina e trascorsi lì tutta la notte. Ogni tanto passava qualcuno con la bicicletta o a piedi. Non era una cosa commemorativa, è che mi sentivo bene”.
Luciano Mirone
(Tratto dal libro “Gli insabbiati. Storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall’indifferenza” – Castelvecchi editore)
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