“Non potete immaginare il disprezzo e la delusione che provo nel vedere tutta la stampa nazionale mobilitata per l’omicidio di Giulio Regeni, per la cui morte provo immenso dolore, mentre solo pochi giornalisti e giornali coraggiosi parlano di Attilio. Ma Attilio non è un cittadino della nostra Italia? Non sono sufficienti le dichiarazioni di numerosi pentiti? Perchè lo STATO continua a tacere?”.

A lanciare l’ennesimo grido di dolore su questa vicenda dai contorni kafkiani è Angela Manca, la madre dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Attilio Manca, la quale, quasi alla vigilia del tredicesimo anniversario della morte del figlio (che ricorre l’11 febbraio), non riesce a rassegnarsi ad uno Stato che mostra i muscoli se un connazionale come Giulio Regeni muore all’estero (in questo caso in Egitto), mentre se un altro connazionale come Attilio Manca muore in Italia (in questo caso a Viterbo, dove il medico lavorava da due anni presso l’ospedale Belcolle) non fa niente per scoprire la verità, anzi, in certe occasioni fa di tutto per occultarla.

Perché Angela. tramite facebook, fa il parallelismo Manca-Regeni? I fatti si svolgono in contesti e situazioni completamente differenti, e però esistono delle similitudini che lo Stato italiano ignora del tutto nel caso Manca e prende in grande considerazione nel caso Regeni.

Giulio Regeni. Sopra: Angela Manca

Vediamo i fatti.

Giulio Regeni, 28 anni, si trova in Egitto per svolgere una ricerca sui sindacati indipendenti

egiziani per conto dell’Università Americana del Cairo. Sono note le sue posizioni di critica verso la difficile situazione sindacale in Egitto dopo la rivoluzione egiziana del 2011.

Viene rapito il 25 gennaio 2016 (giorno del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir): il suo corpo viene ritrovato nove giorni dopo (3 febbraio) vicino al Cairo in una fossa lungo l’autostrada che collega la capitale egiziana con Alessandria. In una fossa… come se si trattasse di una morte accidentale (un incidente), versione che all’inizio viene fornita dalle autorità egiziane, salvo a contraddirla successivamente con ipotesi di altro tipo.

Ma è sul tavolo dell’autopsia – un’autopsia voluta dal governo del nostro Paese, malgrado le resistenze egiziane che ne faranno una parallela, tacendo i risultati – che le autorità italiane trovano fratture, lesioni, rotture, bruciature, tagli sul corpo del ragazzo compatibili con un omicidio preceduto da tortura. Perché tortura? Regeni, come detto, ha legami col movimento sindacale che si oppone al governo del generale Al Sīsī, e quindi non è da escludere un interrogatorio prima dell’assassinio. Un assassinio di Stato, si pensa in Italia, compiuto nei confronti di una persona che l’Egitto considera scomoda. Il Paese arabo smentisca categoricamente.

L’Italia chiede verità e giustizia. L’Egitto a parole dichiara la sua totale disponibilità a collaborare, nei fatti si chiude a riccio, non fornendo neanche i tabulati telefonici di Giulio (ricorrenti anche nella storia di Attilio, ora vedremo perché) . Fra i due Paesi è crisi diplomatica. Ma la Procura di Roma, coordinata da Giuseppe Pignatone, si dimostra solerte nel ricostruire i fatti, allora come ora.

Il Cairo, dal canto suo, cambia versione almeno altre due volte, ovviamente senza lo straccio di una prova. A quella dell’incidente stradale, viene aggiunta come causa della morte una presunta relazione omosessuale di Giulio (che però ha una ragazza), e poi quella più grottesca: una storia di stupefacenti di cui lo stesso Giulio, per le autorità egiziane – anche questa volta senza prove – sarebbe protagonista, malgrado il ragazzo non abbia mai fatto uso di droghe. Altro parallelismo impressionante con il caso Manca.

È a questo punto che la storia di Giulio Regeni – invece di svolgersi al Cairo – potrebbe essere ambientata a Corleone, a Cinisi, o a Barcellona Pozzo di Gotto. E’ a questo punto che le storie di Giulio e di Attilio si sovrappongono, perché presentano delle analogie talmente impressionanti che appare grottesco il fatto che le istituzioni italiane accusino l’Egitto di avere insabbiato il caso. Non perché gli elementi dell’insabbiamento non ci siano, ma perché l’Italia dovrebbe fare un serio esame di coscienza prima di accusare altri Stati.

Sì, perché al netto delle indignazioni, delle proteste, degli incidenti diplomatici, i metodi usati dai due Stati sono così rozzi, così omertosi, così irrispettosi verso le vittime che qualcuno dovrebbe spiegare quale delle due è la Nazione autoritaria e quale quella democratica (o apparentemente tale).

Attilio Manca in Francia, ai tempi della specializzazione delle operazioni in laparoscopia. 2002

Passiamo ad Attilio Manca. L’urologo viene trovato morto nel suo appartamento di Viterbo la mattina del 12 febbraio 2004 (subito si pensa che il decesso sia avvenuto nelle ultime ore del giorno precedente). Il cadavere si trova in posizione prona sul letto; in bagno e in cucina vengono rinvenute due siringhe con tappo salva ago ancora inserito; sul braccio sinistro si trovano due buchi: secondo i magistrati se li è prodotti Attilio con due pere di eroina mista all’assunzione di alcol e di sedativo.

E però, fin dalle prime battute, troppe cose non tornano: Attilio è un mancino puro e i buchi – a meno di prova del contrario – sarebbero dovuti essere nel braccio destro. E poi il volto insanguinato, la pozza di sangue sul pavimento, il setto nasale deviato, le labbra gonfie e tumefatte, i testicoli gonfi come un’arancia e contrassegnati da un’ecchimosi che – secondo il docente di Medicina legale che abbiamo dovuto consultare lo scorso anno per una ricostruzione scientifica, dato che nessuno ha mai chiarito aspetti così inquietanti – presentano i segni caratteristici dell’afferramento.

Per i magistrati di Viterbo la causa di quel decesso è “inoculazione volontaria” di eroina, anche se nell’appartamento non sono stati trovati né il laccio emostatico, né la carta stagnola, né altre tracce di una morte per overdose. Per spiegare con quanta approssimazione vengono svolte le indagini, basta dire che non viene ordinato neanche il rilevamento delle impronte digitali sulle siringhe. Solo otto anni dopo i magistrati viterbesi decidono di fare un accertamento così elementare. Cosa trovano? Niente. Né le impronte di Attilio, né le impronte di altri, e tuttavia continuano ostinatamente a parlare di “inoculazione volontaria”.

L’autopsia presenta tali e tante lacune, omissioni e incongruenze (per usare degli eufemismi) che una inchiesta si sarebbe dovuta aprire sul Medico legale che l’ha eseguita. Invece niente.

A un certo punto succede quel che pochi si aspettano: tre pentiti cominciano a parlare. Giuseppe Setola (compagno di carcere di Giuseppe Gullotti, boss di Barcellona Pozzo di Gotto, ritenuto il mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano), Stefano Lo Verso (ex braccio destro di Bernardo Provenzano), e Carmelo D’Amico (ex boss di Barcellona). Che confermano esattamente ciò che i familiari di Attilio Manca – e sparutissimi giornalisti – sostengono dall’inizio, ossia che l’urologo è stato ucciso nel contesto dell’operazione di cancro alla prostata alla quale, nell’autunno 2003, a Marsiglia, si è sottoposto il boss corleonese Bernardo Provenzano, garante della trattativa Stato-mafia, la cui latitanza è stata protetta dalle istituzioni per oltre quarant’anni. Attilio lo avrebbe assistito e curato per la diagnosi e per la cura post operatoria. Potrebbe aver scoperto inavvertitamente ciò che non doveva scoprire (non solo la vera identità del boss che all’epoca si nascondeva col falso nome di Gaspare Troia, ma la fitta rete di protettori che lo ha nascosto anche a Barcellona Pozzo di Gotto).

Specialmente D’Amico si spinge oltre, dichiarando ai magistrati che l’assassinio è stato commesso per volere della mafia barcellonese ed eseguito da un agente dei servizi segreti deviati “molto abile a far passare gli omicidi per suicidi”.

Ecco allora che qualche conto comincia a tornare: per esempio nessuno ha mai spiegato perché l’allora capo della Squadra mobile di Viterbo, Salvatore Gava, abbia dichiarato per iscritto che nei giorni dell’operazione di Provenzano a Marsiglia, Attilio Manca non si è mai spostato dall’ospedale di Viterbo, salvo ad essere smentito dai giornalisti di “Chi l’ha visto” che hanno dimostrato il contrario, cioè che l’urologo proprio in quei giorni risultava assente.

Nessuno ha mai spiegato perché gli inquirenti di Viterbo non hanno mai ritenuto di richiedere alle compagnie telefoniche i tabulati di Attilio Manca relativi all’autunno del 2003, quando il medico telefona ai genitori “dal Sud della Francia”. Perché? “Devo vedere un intervento chirurgico”, secondo quanto avrebbe riferito alla madre. In quale posto del “Sud della Francia” si trova Attilio? Quale intervwento chirurgico deve “vedere”? Nessuno lo spiega. I tabulati avrebbero potuto accertarlo. Niente da fare. Quei documenti. dopo cinque anni, si mandano al macero, come prevede la legge Schifani.

Nessuno ha mai spiegato in quale parte del mondo civile una famiglia viene esclusa come parte civile in un processo (quello per droga attualmente in corso a Viterbo, che vede una unica imputata, Monica Mileti, accusata di aver ceduto ad Attilio la dose “fatale” di eroina che lo avrebbe portato alla morte) con la motivazione che il decesso del medico non ha cagionato danni alla famiglia. Risultato: il processo, invece di farlo all’imputata, lo stanno facendo alla vittima. Basta vedere la sfilza di persone chiamate a testimoniare.

E arriviamo al 2015. L’inchiesta a quel punto – dato che ci sono i pentiti, quindi c’è la pista mafiosa – viene trasferita alla Procura distrettuale di Roma, mentre a Viterbo continua a celebrarsi il processo per droga.

Non si sa cosa abbia fatto Pignatone in questo lasso di tempo. I segnali – a sentire i familiari e a leggere quel che Angela Manca scrive su facebook – non appaiono incoraggianti. In questo lasso di tempo ci saremmo aspettati da parte del procuratore di Roma quantomeno una convocazione dei genitori e del fratello di Attilio: una conversazione di una mezz’ora e soprattutto una rassicurazione: lo Stato è con voi. Lo Stato… come disse fra le lacrime Rosaria Schifani quando la mafia fece a pezzi il suo sposo assieme ai colleghi della scorta, al giudice Giovanni Falcone e a Francesca Morvillo. Lo Stato… Quale Stato? Quello egiziano o quello italiano? Siamo al Cairo o a Corleone?

Luciano Mirone