Fa impressione apprendere che il gruppo di cinque tunisini – di cui faceva parte il ventiquattrenne Anis Amri, ritenuto dalla polizia tedesca l’autore della strage di Berlino – ospitati nel 2011 presso il centro di accoglienza dell’istituto “Sava” di Belpasso, era più violento di quanto fino a ieri si potesse ritenere.

Fa impressione, man mano che approfondiamo certe storie attraverso nuove testimonianze, sapere che il gruppo, solo perché “innervosito” dalla qualità del cibo e dal ritardo dei visti che avrebbero dovuto attestare il loro status di rifugiati politici, abbiano circondato, minacciato (“ti prendiamo a fuoco”), vessato, terrorizzato e picchiato selvaggiamente a pugni, calci e schiaffi un educatore per una serata intera, mandandolo al pronto soccorso, dove i sanitari gli hanno diagnosticato “un trauma contusivo al rachide cervicale e dorsale, un trauma contusivo all’emitorace sinistro con infrazione della decima e dell’undicesima costa, un trauma chiuso dell’addome”. Il tutto giudicato guaribile in venti giorni.

Fa impressione sapere che i cinque tunisini, con a capo l’autore della strage di Berlino, non contenti di ciò, hanno appiccato il fuoco in una camera danneggiando gravemente la struttura che li ha ospitati.

Fa impressione sapere che – nei tre mesi in cui è stato a Belpasso – il gruppo è stato protagonista di altre azioni vandaliche nei confronti della casa di accoglienza e di violenza nei confronti di qualche altro ospite (non sappiamo se minorenne o meno, dato che l’istituto è frequentato soprattutto da minori).

Fa impressione sapere che ciò è successo dopo che questi cinque ragazzi sono stati salvati da una motovedetta italiana al largo di Lampedusa, dopo un incredibile viaggio di molte ore, e dopo una fuga dal loro Paese al tempo della Primavera araba.

Anis Amri, il tunisino ritenuto l’autore della strage di Berlino. Sopra, un’immagine dell’attentato

Fa impressione sapere che cinque extracomunitari si siano rivoltati in modo così brutale contro le persone che le hanno ospitate, e anche se il cibo non andava, anche se le autorizzazioni per il permesso di soggiorno tardavano ad arrivare, una cosa del genere fa impressione lo stesso.

Sì, fa impressione. Perché un atteggiamento del genere sfugge alla logica normale. Il problema è che in una storia come questa, di normale non c’è niente.

Ripetere come un mantra che questa gente fugge dalle guerre, dalle carestie, dalle persecuzioni è perfino retorico, ma è sicuramente vero.

Quello che sta succedendo oggi fra l’Africa, il Medio Oriente e l’Europa è quello che succedeva ai neri d’America tanti anni fa: un livello di disadattamento e di straniamento (i cinque tunisini arrivati all’istituto “Sava” nel 2001 non conoscevano una sola parola di lingua straniera, eppure dicevano di volere andare in Francia e in Germania per lavorare) che inevitabilmente porta alla frustrazione, e poi all’alcol e alla violenza.

Giustamente si potrebbe obiettare: se sono ospiti in un Paese civile devono osservarne le regole. È vero. Ma non tutti ci riescono. Se alcuni delinquono, bisogna intervenire dal punto di vista preventivo e repressivo con i giusti provvedimenti e le giuste pene, ma innanzitutto – come dice Papa Francesco – bisogna chiedersi “perché”. La prevenzione e la repressione sono problemi di polizia. Il “perché” è un problema culturale. Senza porsi questa semplice domanda, tutto diventerà più difficile e tutto rischia di sprofondare, come i barconi che qualcuno – preso da una rabbia legittima per quanto successo – vorrebbe affondare al largo dei nostri mari.

Quello che succede da noi, succedeva a noi all’inizio del Novecento, quando – con le pezze nel sedere – emigravamo in America. E se qualcuno dice che ci siamo attenuti alle regole e alle leggi degli Stati Uniti, rispondiamo che è vero, ma anche che non è vero.

È vero: perché la maggior parte di noi si è affrancata dalla propria condizione tramite le leggi, diventando grande e facendo grande l’America.

Non è vero: perché una parte di noi ha esportato le piaghe fra le più purulente del Ventesimo secolo: la mafia, la droga, la violenza. “Perché”? Venivamo dal cul de sac del mondo, dove non lo Stato è sempre stato un’entità astratta, ma in compenso abbiamo vissuto per secoli con l’ignoranza e la miseria. E questo genera violenza.

E se pensiamo di esserci liberati da questa condizione, evidentemente non siamo neanche capaci di guardare la realtà che è sotto i nostri occhi. Andiamo in certi quartieri come lo Zen a Palermo, come Librino a Catania, come le Vele a Napoli, osserviamo e chiediamoci: “Perché”? Perché a dieci anni si spaccia, a dodici si fa il primo scippo, a quindici la prima rapina e a diciotto il primo omicidio?

Se il mondo occidentale continuerà a pensare solo alla sua opulenza, senza farsi carico dei poveri e dei disgraziati della Terra, senza porsi il problema dell’accoglienza e poi – assolutamente – di un aiuto concreto a casa loro, tutto resterà com’è. Anzi tutto peggiorerà.

Luciano Mirone