Adesso lo acciufferanno o dobbiamo aspettare altro tempo, prima che il super latitante di Cosa nostra Matteo Messina Denaro (il depositario dei segreti sulle stragi di Stato, il mandante e l’esecutore di decine di omicidi efferati) venga assicurato alla giustizia?
L’operazione “Ermes 2” promossa ieri dalla Squadra mobile di Trapani (settanta gli uomini impiegati, fra poliziotti di Palermo, Mazara del Vallo e Castelvetrano) e coordinata dalla Direzione distrettuale del capoluogo siciliano, è di quelle importanti, perché fa terra bruciata ancora una volta attorno al capomafia di Castelvetrano.
Undici misure di custodia cautelare e il sequestro di tre imprese facenti capo all’imprendibile boss costituiscono senza dubbio l’ennesimo successo dello Stato contro l’antistato. Ma affinché lo Stato possa riacquistare la sua credibilità, dopo le latitanze dorate e le protezioni che ha assicurato a personaggi del calibro di Nitto Santapaola, Bernardo Provenzano, Totò Riina, e prima di Luciano Liggio, Tano Badalamenti e Stefano Bontate, e prima ancora di Michele Navarra, è necessario che arresti Matteo Messina Denaro.
Certo, è importante interrompere gli affari – come è stato fatto ieri con l’operazione “Ermes 2”– di questo indiscusso leader del crimine mondiale, affari nel settore degli appalti per la realizzazione del parco eolico e dei lavori di ristrutturazione dell’ospedale di Mazara del Vallo (controllati da quel Vito Gondola che secondo i magistrati è uomo di Messina Denaro), è importante sgominare una parte della vasta rete di prestanome su cui il boss può contare. Ma non basta.
Non basta, perché Matteo Messina Denaro – per dirla con lo scrittore Salvatore Mugno, che in un libro ha raccontato le nefandezze del boss – a differenza dei predecessori Riina e Provenzano, è un padrino del nostro tempo, più acculturato, più raffinato, con un diploma di scuola superiore e qualche buona lettura, magari consumata tra un delitto e una strage, quindi è un boss facilmente mimetizzabile nella borghesia mafiosa che ormai possiede lauree, indossa doppiopetti, frequenta salotti raffinati. Mica come quei cafoni di Riina e Provenzano che si presentavano con le scarpe sporche di creta.
Questo giovane rampollo della Famiglia mafiosa di Castelvetrano è un vero capo che imbastisce le sue alleanze politiche con passo felpato e discreto (il padre e il nonno hanno fatto il bello e il cattivo tempo per quasi un secolo in Sicilia orientale: li ritroviamo, ad esempio, come indiscussi protagonisti nell’affaire Giuliano, il bandito prima usato e poi ucciso dalla mafia fattasi Stato), è capace di ricattare quei pezzi delle istituzioni coinvolti nelle stragi, nella trattativa, e nella ricerca del consenso servito per un’elezione al parlamento nazionale o regionale, in un comune o in una provincia.
I nomi sono sulla bocca di tutti da almeno trent’anni, eppure molti politici l’hanno fatta franca. Un caso – come emerge dagli atti giudiziari – che gli inquirenti, malgrado siano giunti più di una volta a un passo dalla sua cattura, se lo siano misteriosamente lasciati sfuggire?
Matteo Messina Denaro – secondo i magistrati – è l’uomo che sta dietro agli omicidi o ai tentati omicidi eccellenti commessi degli ultimi decenni nel trapanese: dal delitto dell’ex sindaco di Castelvetrano Vito Lipari al giornalista-sociologo Mauro Rostagno, fino al fallito attentato contro il funzionario di Polizia Calogero Germanà. E però è anche uno dei capi che ha condotto la strategia stragista del 1993: il fallito attentato a Maurizio Costanzo, la strage di via dei Georgofili a Firenze (5 morti e 50 feriti), quella di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro a Roma (molti feriti e parecchi danni), quella di via Palestro a Milano (5 morti), e la mancata strage allo stadio olimpico di Roma dove per miracolo non ci fu una carneficina di carabinieri, poliziotti e militari dell’esercito. Ecco perché è importante prenderlo adesso, non quando non servirà più.
Luciano Mirone
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