Il caso di Garlasco ha una impressionante analogia con il caso di Attilio Manca. Le ultime novità sul delitto di Chiara Poggi (2007) pongono dei seri interrogativi sulla morte dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto avvenuta tre anni prima.

Cambiano i moventi, i personaggi, i luoghi, ma le vittime sembrano accomunate da una analogia impressionante (chiariamo: una analogia, non un collegamento): il materiale organico presente sotto le unghie di entrambe, con una sostanziale differenza: nel caso di Garlasco è stato esaminato con un test del Dna, nel caso del medico siciliano no.

È di ieri la notizia che i legali di Alberto Stasi – condannato a sedici anni con sentenza definitiva per essere stato ritenuto l’assassino dell’ex fidanzata Chiara Poggi – sono intenzionati a chiedere la revisione del processo: i periti di parte sostengono che il Dna presente sotto le unghie della ragazza non è quello dell’ex compagno, ma di un conoscente della ragazza. La sentenza della Cassazione potrebbe essere messa in discussione da nuove indagini? Non lo sappiamo, ma i legali della difesa sono intenzionati ad andare fino in fondo.

Attilio Manca in Francia. Nella foto in alto, Chiara Poggi

Passiamo ad Attilio Manca, il giovane urologo siciliano trovato morto nel 2004 nella sua abitazione di Viterbo, dove lavorava da meno di due anni presso l’ospedale “Belcolle”.

Evidenti le incongruenze che, fin dalle prime battute, hanno caratterizzato questa storia: a cominciare dalle due siringhe rinvenute nell’appartamento, con tappi salva ago e salva stantuffo ancora inseriti, su cui le impronte digitali sono state ordinate soltanto dopo otto anni (fra l’altro senza alcun risultato, quindi senza prove di responsabilità); passando per quei due buchi localizzati nel braccio sinistro della vittima, sui quali nessuno ha mai spiegato l’origine, dato che Attilio Manca era un mancino puro e quindi quei fori – nel caso in cui le siringhe fossero state utilizzate da lui – si sarebbero dovuti trovare nel braccio destro; per finire con un’altra serie impressionante di contraddizioni emerse sia dalle indagini, sia dall’autopsia, su cui ci siamo soffermati in altre occasioni (vedi link su Attilio Manca).

Quella materia nerastra, secondo i familiari (specie gli zii, che hanno osservato il cadavere di Attilio all’obitorio di Viterbo, al contrario dei genitori ai quali è stato “amichevolmente” sconsigliato di vederlo), era presente in notevoli quantità sotto le unghie del congiunto. Nessuno ha mai ritenuto di analizzare le caratteristiche biologiche e genetiche di quella sostanza, visto che nessuno ha mai ritenuto di fare la cosa più semplice di questo mondo: un test del Dna.

Per gli inquirenti si è trattato di un ordinario caso di overdose finito tragicamente, con un processo tutt’ora in corso a Viterbo nei confronti di una donna romana, Monica Mileti, accusata (senza prove anche in questo caso) di avere ceduto ad Attilio la dose di eroina che lo avrebbe portato alla morte. Estromessa dal dibattimento la famiglia Manca (motivazione: “La morte del medico non ha cagionato danni ai congiunti”), la quale, attraverso i suoi legali Antonio Ingroia e Fabio Repici, aveva chiesto la costituzione di parte civile. Nessuna prova neanche sull’eventuale tossicodipendenza pregressa e sull’”inoculazione volontaria” del medico, come sostenuto dagli inquirenti.

E allora? Allora il caso potrebbe essere meno banale di quanto appaia. Secondo almeno tre collaboratori di giustizia (Setola, Lo Verso e D’Amico) la morte di Attilio Manca è stata decisa da Cosa nostra barcellonese (che sarebbe riuscita ad “agganciare” l’urologo, uno dei migliori d’Italia), ed eseguita dai servizi segreti, nel contesto dell’operazione di cancro alla prostata alla quale il boss dei boss Bernardo Provenzano si era sottoposto nell’autunno del 2003 a Marsiglia.

Il medico siciliano – forse presente all’intervento chirurgico – sarebbe stato coinvolto nella diagnosi e nelle cure post operatorie effettuate in Italia. Il caso – dopo le dichiarazioni dei pentiti – ha preso due direzioni: processo per droga a Viterbo, indagini per mafia a Roma, condotte da circa un anno e mezzo dal capo della Procura distrettuale Giuseppe Pignatone e dal suo sostituto Michele Prestipino. Ma dalla capitale non giungono novità.

Luciano Mirone