Una donna silenziosa …

… di un silenzio costruttivo fatto di un ascolto spirituale, attento, velato, verso l’ambiente che la circonda, i suoi interlocutori, prima di accendere le polveri della sua anima travagliata, celata dietro la gentile e umile avvenenza: questa è Dacia Maraini.

Sì, proprio lei, ottant’anni di energia, di esperienze, di traumi e di passioni. E soprattutto di libri in cui divampa una scrittura non addomesticabile, sorretta da venti interiori non docili. La nave per Kobe. Diari giapponesi di mia madre; Chiara d’Assisi. Elogio della disobbedienza; La grande festa, La ragazza di via Maqueda, sono solo alcuni dei titoli che hanno onorato il lungo e intenso percorso esistenziale e artistico della scrittrice tosco-siciliana, che ha fatto della villa di Valguarnera in Sicilia e delle periferie del mondo, ma non solo, il pozzo privilegiato cui attingere l’inchiostro dell’anima.

Dacia Maraini con Pier Paolo Pasolini. Sopra: con Alberto Moravia

 

Penna d’assalto, Dacia, ha sintetizzato un intero secolo, il Novecento, con le sue barbarie, le sue tensioni, la lezione dei suoi cari e dell’essere umano in generale (il nonno, il padre, la madre, la sorella, e l’esperienza nel lager giapponese, gli amori), per cercare di segnare la rotta dei valori più nobili.

Del resto è questo, forse, l’insegnamento del Dio dei naviganti, tanto caro alla Maraini.

Ascoltare la lezione di questa straordinaria donna siciliana che ha registrato l’abisso del secolo scorso, origliare la sua testimonianza di sopravvissuta, di scrittrice, di amante, in occasione di un convegno tenuto a Capo d’Orlando e voluto da Lilia Leonardi, Dirigente scolastica degli Istituti “Seguenza” di Messina e “Merendino” di Capo d’Orlando, è servito ad allentare, almeno in parte, quel filtro di velato pessimismo, in tempi di villaggio globale offuscati dalle nebbie delle economie e del terrorismo. Disoccupazione, Nizza, Berlino, Aleppo, tensioni sociali, crescenti nazionalismi, l’immensa necropoli del Mediterraneo e femminicidi giornalieri sono l’immagine opaca e violenta di un mondo che ha perso la bussola della dignità.

Dacia Maraini, figlia di Bagheria, ha scritto, anzitutto, con quella pulsione tipica dei siciliani corroborati dal dualismo avversità/positività, bene/male, che attanagliano la Sicilia in un gioco perverso di crescita e regresso, ricchezza e povertà, civiltà e miseria, arte a cielo aperto e cappa masso-mafiosa e che tanto insegna, tanto nutre, quanto i vinti di verghiana memoria. Una fucina dell’esistenza tanto nobile quanto losca.

L’opera della Maraini, suggerita dalle esperienze vissute, ha trasmesso, e continua a farlo, un messaggio di vita: una storia del mondo e dell’anima, la sua arte, in cui la vita e anche la morte vanno preservate nella loro onorabilità.

Per certi aspetti, parafrasando Benedetto Croce, ha incarnato quell’Italia che pensa, che sogna, che medita, che si autocritica, che soffre e, pari tempo, gioisce. Un’Italia che non ha paura di accogliere l’alterità, e, abiurando ogni forma di pregiudizio, mira alla ri-strutturazione della coscienza del rispetto quale espressione più nobile della civiltà di un popolo.

E, con semplicità disarmante, ha interpretato pienamente quel paradigma tramandato da Federico Chabod, storico degli storici: legge tutto, ha letto il mondo, continua a farlo e tutto rende visibile nella stesura dei sui libri.

L’autrice di “Bagheria” con lo scrittore Luciano Armeli Iapichino

La Maraini l’ha fatto con i libri, e continua a farlo con editoriali pungenti, affinché nessuno osi dimenticare, metaforicamente, un odore: quello dell’orrore di cui è stato capace e che continua a perpetrare, con modi diversi e più disumani, l’uomo di oggi.

Un odore che la signora Margarethe von Bjeck, la moglie di un ufficiale delle SS, aveva avvertito inaspettatamente, per un cambio di vento, mentre raccoglieva cicoria fuori da casa sua non molto lontano da un campo di concentramento; nauseante, sgradevole commisto a cenere grassa.

Quello della ciminiera delle camere a gas. (Il treno dell’ultima notte)

 

E sì! Perché l’unica lezione che sembra essere rimasta impressa dall’autodistruzione dell’uomo del secolo scorso, artefice dei totalitarismi, è che gli eccidi si possono traghettare nell’era d’internet, nell’oceano dell’indifferenza e con la complicità, almeno etica, dell’Occidente.

Spesso le parole urlano l’apatia istituzionale, denunciano il marcio, le corruzioni, le imbarazzanti collusioni, le vessazioni e le vergogne, i gattopardismi, eppure, come voce muta e derisa dalla prepotenza dei poteri, lo schiamazzo dei miserabili, di solito, s’infrange contro il muro impenetrabile e sordo del sistema.

L’autrice in una foto giovanile

Certo, a volte, capita che qualche breccia si apra (vedi il grande esempio di coscienza civile di Bagheria e dell’operazione Reset 2) …

… ma la muraglia, come quella della Cina, è immensa e sterminata; l’isolamento di chi sbraita è tangibile e gli intellettuali sembrano in crisi per una virulenta indifferenza spirituale e collettiva, tutta nostrana, che si è annidata nelle regioni dell’intelletto nazionale, offuscando la sua facoltà di giudizio.

È come se l’omologazione di massa paventata da Pasolini, e ancor prima da Moravia, due uomini cui Dacia Maraini, con ruoli diversi, è stata profondamente legata (amico il primo e compagno di vita l’altro) e poi da Eco, in altre parole la tendenza ad assumere uno stile di vita asservito al totalitarismo massmediatico e consumista, abbiano indebolito quel ruolo degli intellettuali che, agli occhi di tanti, non sono percepiti più come amici del popolo e per il popolo ma fantasmi invisibili e, cosa ancor più mortificante, marginali e fastidiose presenze.

Il nostro Belpaese è sull’orlo del suicidio e il silenzio della cultura è assordante. Oserei di più. Il suicidio è avvenuto e dietro il feretro c’è poco. C’è solo il disgraziato avanzo di una lotta intestina tra fazioni che hanno smarrito di decoroso senso nazionale, incapaci di pensare fattivamente ai bisogni reali e contingenti di una nazione, cui si relazionano, spesso, mascherati di presunzione e ipocrisia.

Eppure una nuova coscienza civile, sradicando quella pigrizia che ci relega nella lettura tra gli ultimi Paesi europei (dato ISTAT), può essere rinvigorita dai libri, che instradano laddove la vegetazione s’infittisce e il cammino, quello interiore, diventa particolarmente aspro. E di questo, la vincitrice del Campiello, è una convinta propugnatrice: “Uscire da un libro è come uscire dal meglio di sé. Passare dagli archi soffici e ariosi della mente alle goffaggini di un corpo accattone sempre in cerca di qualcosa è comunque una resa”. (La lunga vita di Marianna Ucria)

Qualcuno diceva che la bellezza salverà il mondo. Anche i libri e quel nobile gesto di accostarsi alle esperienze altre, ai dettagli altri, alle esistenze altre, al mondo altro, che i libri serbano al loro interno.

Moravia, ne Gli indifferenti, parlava di incapacità generazionale di accostarsi alla vita.

Oggi, l’accostamento al mondo virtuale fa più vittime delle sincere amicizie. Ha ragione la Maraini quando scrive che: “La sola cosa che i morti non tollerano è l’arroganza. Di fronte ad essa semplicemente si volatilizzano, scompaiono.” (La grande festa)

Viviamo, difatti, in una società in cui l’arroganza, nelle forme più diaboliche, domina e contamina le nostre relazioni.

E ancora: “Il ragazzo dalle gambe amputate lancia un grido quando viene toccato sulla carne viva. Ma poi tace. Affronta con coraggio la medicazione.”  (Il treno dell’ultima notte)

Ed è questo un grande insegnamento da non sottovalutare. Urliamo il grido di dolore … ma poi bisogna camminare. Camminare per costruire l’architrave robusto del futuro.

In un’isola, la Sicilia, i cui i torrenti spesso sono aridi o bagnati di sangue, ma la bellezza del suo patrimonio, della sua storia e della sua cultura, rimane ancora intatta; in questa nazione che insiste da secoli come universale storia dell’arte in cui tuffarsi per rigenerarsi, facciamo nostra la lezione di Dacia Maraini: “I sentimenti e i risentimenti non cambiano nel tempo, solo il modo di esprimerli può cambiare” (La bambina e il sognatore). E, allora, che sia un modo in cui il sogno sia l’infinita ombra del vero.

Luciano Armeli Iapichino