È la Sicilia uno degli epicentri delle ricerche su cui si appuntano le maggiori attenzioni degli investigatori italiani per ricostruire i passaggi di Anis Amri, autore dell’attentato ai mercatini di Berlino commesso il 19 dicembre che ha causato 12 morti e diversi feriti. Le indagini stanno cercando di approfondire passo passo l’itinerario seguito dal 24enne tunisino lungo l’asse Berlino-Milano, con possibili contatti pregressi che lui stesso stava riattivando una volta messo piede sul suolo italiano. Fra questi, a parere degli investigatori, amici o conoscenti residenti in Sicilia, che il tunisino avrebbe inserito nel suo piano di fuga.

I magistrati di Roma, Milano e Palermo stanno seguendo il filo dei mille chilometri che separano la Lombardia (precisamente Sesto San Giovanni, alle porte della città meneghina, dove l’attentatore venerdì scorso è stato ucciso durante un conflitto a fuoco con la polizia) dalla Sicilia.

Dopo la strage, Amri aveva lasciato in fretta Berlino per rifugiarsi nel nostro Paese. Qui, a parere degli inquirenti, avrebbe potuto contare sull’appoggio anche di gente comune. L’attenzione è puntata sulle carceri siciliane nelle quali il tunisino, per quattro anni,  è stato detenuto dopo la condanna subita per incendio aggravato, lesioni personali e minacce, di cui nel 2011 si era reso protagonista assieme a quattro connazionali, nella casa di accoglienza dell’istituto “Sava” di Belpasso, che lo ha ospitato per tre mesi, dopo essere stato salvato dalla guardia costiera al largo di Lampedusa.

Colpisce – a sentire i testimoni diretti e indiretti di Belpasso – il livello di brutalità espresso da lui e dagli altri connazionali nell’aggredire un educatore della struttura, sol perché il gruppo era insoddisfatto della qualità del cibo e non aveva ancora ottenuto il documento che attestasse il loro status di rifugiati politici. Un’aggressione violenta fatta di pugni, calci, minacce, sputi, che ha causato il ricovero dell’uomo al pronto soccorso, con lesioni guaribili in 20 giorni. Una carica di brutalità che deriva sì dallo straniamento, dalla frustrazione e dal disadattamento di questi giovani sradicati dal loro Paese, ma non spiega motivi per i quali hanno fatto poco per integrarsi. Specie se si pensa che – secondo i testimoni sentiti a Belpasso – i ragazzi extracomunitari facevano frequente uso di alcol e spesso andavano in escandescenza. Una pratica che spiega – più dello straniamento, della frustrazione  e del disadattamento – il livello di violenza che Amri e compagni hanno espresso dentro il “Sava” aggredendo l’educatore e bruciando un’ala della struttura.

Una volta in carcere, Anis Amri sarebbe stato radicalizzato da qualche integralista conosciuto fra Catania, Enna, Sciacca, Agrigento e Palermo (Pagliarelli e Ucciardone). Uscito di prigione avrebbe prima frequentato un giro di spacciatori e poi si sarebbe diretto in Germania.

Si indaga su un permesso di soggiorno falso che l’attentatore è riuscito a procurarsi a Palermo. Adesso gli inquirenti cercano di capire da chi Amri avrebbe ottenuto il documento, perché voleva tornare in Sicilia e soprattutto chi sarebbe stato disponibile a dargli protezione.

Luciano Mirone