Carissima Rosaria Schifani, scusa se mi rivolgo a te usando un tono di stretta confidenza, ma sono un siciliano che ha vissuto le stragi del ’92 e da quel drammatico momento non ti ho più lasciato, nonostante io non ti conosca personalmente.

Tutti, o quasi, ricordiamo bene con chi e dove eravamo in quel tragico momento, quando la mafia, e non soltanto, ha trucidato il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli uomini della scorta, fra i quali, anche il tuo Vito.

Come non ricordare la tua supplica agli assassini il giorno delle esequie. Ogni volta che sento quelle parole cariche di dolore e di preghiera disperata, penso che in quel piovoso e freddo lunedì di maggio, anche se la Cattedrale di Palermo era stracolma dentro e fuori dalla “gente inferocita di Palermo”, tu eri comunque una giovanissima donna lasciata sola.

Rosaria, è davvero pesante dover ammettere che la foga, la rabbia, la volontà di “cambiare”, come hai detto con quel pianto strozzato da un immenso dolore, col tempo si è affievolita e si è tornati ad essere dei codardi, complici come i nostri nonni e padri ci hanno inculcato, per non infastidire i “padrini”, i colletti bianchi, sempre esistiti in questa terra di collusi.

Non sentiamo la necessità di liberarci da quell’oppio che ci distrugge, per il semplice fatto di non esserci mai svegliati. Stiamo camminando molto lentamente, o meglio, non procediamo concretamente verso una cultura fondata sull’antimafia perché fondamentalmente ci fa comodo non liberarci dalle catene, dall’oscurità della sottomissione a cosa nostra.

Nel mio piccolo e, per quanto mi è possibile, non perdo occasione per manifestare contro questo sistema, denunciando sia in poesia che in prosa la mafia. Partecipo alle varie manifestazioni “per non dimenticare”. Quando ho l’occasione, cerco di oppormi alla cultura mafiosa, ma mi rammarica pensare che quello che posso fare è molto poco.

Inoltre, provo molta rabbia perché noto che, nonostante vicende così tragiche, come le stragi eccellenti dei magistrati Falcone e Borsellino, le persone, appartenenti a qualsiasi ceto sociale, non tengono conto neanche dei più semplici principi per il quieto vivere. Potrà sembrare banale, ma penso che, se imparassimo a vivere davvero, faremmo del bene a noi stessi prima di tutto e di conseguenza anche agli altri.

Potrei portare tantissimi esempi di non collaborazione, di mancanza di civiltà; dal rispetto per la natura, al prendersi cura di chi soffre. Non vorrei sembrare fuori luogo ma sento che c’è carenza di sensibilità, di delicatezza nei confronti del prossimo. Ecco, secondo il mio punto di vista, anche questa è una forma di mafia, una inclinazione che induce le persone ad avere un atteggiamento di superiorità nei confronti dei propri simili.

Insomma, cara Rosaria, ti scrivo perché immagino quanto sia avvilente e ingiusto attendere una verità certa, dopo tutti questi lunghissimi anni, anni in cui tu e le altre vittime di mafia avete perso mariti, figli, fratelli per aver servito lo Stato ed ogni singolo cittadino. Questo non deve, non può far parte di una società cosiddetta evoluta.

Permettimi di esserti vicino da siciliano e da semplice amico che, all’epoca dei sanguinosi fatti, era un ragazzino di appena ventuno anni che, da subito, ha provato a capire quale direzione prendere.

Cara Rosaria, io continuo a lottare e a difendere le mie personali convinzioni, a spendere tutte le mie forze, che non sono tante, ne sono consapevole, ma per quanto mi è possibile io ci sono e ci sarò sempre.
Con immenso riconoscimento.

Arcangelo Gabriele Signorello