‘Network Society. Mutazione antropologica dell’essere’, è il libro di esordio della pedagogista e psicologa Barbara Caudullo. Un volume in cui la docente e studiosa dei fenomeni sociali contemporanei mette a fuoco il cambiamento degli esseri umani in rapporto alle nuove tecnologie, soprattutto i Social, che hanno mutato il modo di dialogare e di esprimersi fra persone, e addirittura il modo di elaborazione del pensiero, un fenomeno di inettitudine collettiva che ha portato le persone a esprimersi con un like, senza l’apporto di quel senso critico che dovrebbe caratterizzare soprattutto le giovani generazioni.
Barbara Caudullo, nella sua opera, si spinge oltre e parla addirittura di ‘perdita diffusa della nostra intelligenza’, nel senso della ‘capacità di comprendere, di fare inferenze, di stabilire una gerarchia di significati, di formulare concetti astratti, di elaborare una visione del mondo articolata, complessa, critica’.
Un’analisi spietata che viviseziona al microscopio – e a trecentosessanta gradi – la psicologia dei comportamenti umani a contatto con i nuovi network. Non più l’uomo ad essere padrone della tecnologia, come ci si illude che sia, ma la tecnologia ad essere diventata, in modo suadente e silenzioso, padrona dell’intelligenza umana. Un concetto che l’autrice esprime con questa frase significativa: ‘Ammaliati dalle sirene della comodità, della rapidità, della facilità di chi prima ci ha venduto le nuove tecnologie digitali e di chi poi ha venduto noi ai padroni delle tecnologie digitali, non ci siamo resi conto della posta in gioco’. Parole che inducono alla riflessione e alla presa di coscienza. Ma c’è un rimedio, l’unico possibile, per uscire dalle grinfie dell’omologazione: la cultura. Quello che segue un brano del libro – luciano mirone -.
”Guardiamoci intorno, osserviamo le persone che ci circondano: all’esigenza di una diffusa e libera energia sociale – a partire da scuola e università – alla necessità di un dialogo reale, dunque dialettico e in corpore vili, tra una pluralità di soggetti che si incontrano e agiscono in una dimensione autenticamente collettiva e che non siano espressione di un’eccezionale minoranza, corrisponde oggi una risposta inerte, una passività diffusa, un adattamento flebilmente critico – e più spesso compiaciutamente acritico – all’ineluttabilità dell’esistente, una inettitudine collettiva generata anche dall’inazione prolungata, dalla delega pigra con cui abbiamo sostituito la voce, il gesto, l’espressione critica con un I like cliccato su una tastiera o con un emoticon che qualcun altro ha stilizzato per noi, con un linguaggio binario povero e polarizzato, prigioniero di una sterile contrapposizione tra tesi e antitesi ma incapace di qualunque sfumatura dialettica. Ammaliati dalle sirene della comodità, della rapidità, della facilità di chi prima ci ha venduto le nuove tecnologie digitali e di chi poi ha venduto noi ai padroni delle tecnologie digitali, non ci siamo resi conto della posta in gioco: la perdita diffusa della nostra intelligenza intesa come capacità di comprendere, di fare inferenze, di stabilire una gerarchia di significati, di formulare concetti astratti, di elaborare una visione del mondo articolata, complessa, critica. Ma anche la perdita della nostra possibilità di incidere nel reale, con azioni in grado di produrre un cambiamento. Ovvero, della nostra libertà…
… Siamo sempre più bombardati da una tale quantità di immagini da non sapere più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi. Il virtuale, d’altra parte, non simula solo il reale, ma può costruire anche un’esperienza di simulazione dell’immaginario. La propria immagine può essere continuamente revisionata, resa sempre più funzionale, per apparire al massimo a fronte delle continue revisioni dei meccanismi della rete: agire secondo tali meccanismi, in un continuo andirivieni dal reale al virtuale, porta alla moltiplicazione delle identità…
L’esibizione delle immagini, il dover apparire per esistere, annullano la classica dicotomia tra uomo pubblico e uomo privato, nel senso che l’uomo privato è sempre più di pubblico dominio. L’annientamento della dicotomia tra sociale e individuale, tra pubblico e privato, “rendono obsoleto il concetto di massa come concentrazione di molti, e attuale quello di massificazione come qualità di milioni di singoli Essere al mondo senza capire in che mondo siamo”…
… Attraverso l’ibridazione, l’uomo caduto nella Rete si modifica perché il suo spazio dimensionale di autopoiesi cambia, i suoi predicati si trasformano in tutte le direzioni.
L’uomo “risorge” nella cultura.
L’educazione della coscienza assume centralità e importanza per la formazione dei rapporti interumani e sociali. E’ del tutto evidente che il compito primario ed essenziale della cultura in generale e anche di ogni cultura è l’educazione.
Una cultura che educa è una cultura che tiene conto della dignità dell’uomo e lo abitua a non cadere nel tranello della manipolazione. Dentro varie manipolazioni si assiste alla rinuncia sistematica della sana ambizione di essere uomo. Dispieghiamo tutti gli sforzi per instaurare e rispettare, in tutti gli ambiti della tecnologia, il primato dell’etica. Se nell’uomo il suo senso etico deriva dalla verità dei suoi principi e dalla conformità delle sue azioni con questi principi, e questi sono l’unica cosa che conta, decisivi per riappropriarsi del significato di cultura, non basta l’istruzione, il saper fare le cose, il saper utilizzare gli strumenti. Occorre un rinnovamento etico delle coscienze. E’ indubitabile, senz’altro che l’umanità sarà aiutata dall’uomo di scienza se questi conserverà il senso della trascendenza dell’uomo sul mondo. Per l’avvenire della cultura, dunque, ci si attende una nuova santa alleanza tra tecnologia e coscienza, perché la causa dell’uomo caduto in Rete possa servire a ridefinire i contorni della nuova questione antropologica.
In questo contesto si comprende l’urgenza di una riconsiderazione antropologica che consenta di pensare l’esperienza dell’uomo in integralità, per attingere in essa le coordinate normative ed etiche dello sviluppo umano, cui la tecnoscienza deve anche servire: affinchè il progresso sia progresso dell’uomo e di tutti gli uomini; affinchè la cultura dell’uomo sia ciò per mezzo della quale l’uomo diventa “più uomo”, cresce, è “di più”, nelle profondità di sé, nell’ humanum. L’umano nell’uomo è il nucleo originale presente in ogni uomo che impedisce al potere di schiacciare il singolo nella morsa dell’omologazione”.
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