La storia una clochard cinquantenne di Catania, Rosetta, al tempo del coronavirus. Una storia descritta in modo toccante e delicato dalla giornalista Ada Baldanza Mollica, che su Facebook, per un mese, ha tenuto un diario sui momenti più belli trascorsi con lei. Fino a quando, un giorno, Rosetta sparisce. Questo diario comincia proprio dalla fine. E poi si ricompone.

5 maggio 

Rosetta “non abita” più lì. Al suo posto da stamattina c’é una pianta di pitosforo. Il piccolo spazio, adesso, é interdetto, delimitato da un nastro a strisce rosse e bianche, di quelli usati nei cantieri. Ancora per terra sono rimasti una logora giacca nera e l’ombrello che la proteggeva dal sole.
Quella piccola donna, che non ha un tetto né altro, é stata fatta sgomberare perché pare non fosse gradita agli abitanti della zona.
E’ stato facile, è bastata la denuncia di una presenza fastidiosa per fare arrivare la polizia.
La cerco in giro e finalmente la trovo, su una panchina, al sole. Mi dice dei poliziotti, dello sgombero.
Preannuncia una sua improbabile reazione. Minaccia guerre che non farà mai mentre mi consegna uno sorriso mite come una giornata di primavera: “Andrò altrove, alla Fiera o poco più in là. Troverò un altro posto adatto a me”.

11 aprile 

E’ tutto relativo, il bianco e il nero, il prima e il dopo, il fuori e il dentro. Tutto sta a considerare il punto di vista del soggetto.
C’é una donna di 50 anni, si chiama Rosetta, é una clochard, senzatetto, homeless, barbona. Vive fuori, in strada, non lontano da casa mia. La vedo quando vado a comprare il pane e ci penso ogni notte, quando entro nel mio caldo letto.
Si é ritagliata uno spazio angusto, sarà poco più di un metro per un metro, davanti alla porta di un negozio di parrucchiere rientrata rispetto alla linea del marciapiedi. Vive lì, accoccolata, ripiegata come un feto, tranquilla.
Quando vado a fare la spesa, le porto un panino e una coca e scambiamo quattro parole.
Le ho chiesto se vuole che informi la Charitas, se vuole andare in un posto più sicuro, più caldo.
No, non vuole. Sta bene lì perché ha paura di sporcarsi, a contatto con altri . “ Io sono pulita -dice- sono salutiva”
Insisto. Ma sta bene lì, in quel cantuccio di strada, alla mercé di chiunque?
“Si -risponde- va bene così per adesso che c’é ancora freddo. Quando viene il caldo, però, io esco”.

15 aprile

Ieri Rosetta non ha voluto nulla. Non il solito panino variamente imbottito e nemmeno le patatine fritte e la Coca cola che mi chiede di solito. Non aveva fame né sete. In compenso aveva voglia di parlare e mi ha regalato tanti pezzi del puzzle della sua vita, molti uomini, conviventi – così li chiama – e poi due aborti volontari ma subìti. “Ho pianto tanto – dice – io i figli li avrei voluti”.
E anche adesso che vive per strada i corteggiatori non le mancano. “Ma io non mi sento pronta”, confessa, come fosse una ragazzina.
Poi se ne esce con un complimento inatteso: “Lei da giovane doveva essere molto bella”.
Anche tu, Rosetta, dovevi essere bella e lo sei anche adesso.

16 aprile

Oggi Rosetta ha preferito il dolce al salato. Piccoli, innocenti desideri, così facili da soddisfare.
Mi ha chiesto dei biscotti, quelli della monaca – e ha fatto il segno di una S con l’indice – e anche una crostatina alla marmellata di albicocche.
Lo scambio di battute, stavolta, si é involontariamente indirizzato sull’argomento del giorno, la conversazione é “virata” sul Virus.
E’ indispettita Rosetta per le strade vuote: “Perché la gente sta tutta a casa?”
Perché c’è una brutta malattia che uccide le persone. “No, non é vero; non c’é proprio niente”.
Rosetta si rifiuta di accogliere nella sua mente anche la paura del morbo che terrorizza il mondo. Chissà quanti spettri si agitano già nel suo cervello. Nessun virus, secondo lei, ci imprigiona dentro. Con le strade vuote, però, non può uscire nemmeno lei da quello spazio angusto che considera casa. E’ come se le facessero un ennesimo dispetto, un affronto.
Occorre qualcosa che faccia tornare fuori le persone.
E Rosetta trova la sua soluzione. “Esci tu, con la tua macchina – mi dice- e vedrai che appena ti vedono escono tutti appresso a te. Come i vaccareddi”.
Mi sento tanto il pifferaio magico, la pifferaia delle lumache.

18 aprile

Per Rosetta l’identità di genere ha a che fare anche con le birre. Ci sono quelle da uomo e quelle da donna. Gliene ho portata una che non é stata di suo gradimento. “Chista é ppe masculi”- mi ha detto – non la bere nemmeno tu”.
Pazienza, Rosetta, la prossima volta farò più attenzione; te ne porterò una “di colore rosa”.

20 aprile

Rosetta ci tiene alla linea, anche se vive per strada. Ci tiene sì e quindi oggi niente pane, solo cracker , prosciutto e coca ligth.
E poi non ha nemmeno tanta fame, tutta presa com’é dalla ricerca di un certo golf rosso che non riesce a trovare. Chissà dove l’avrà messo. Con tutti quegli ampi spazi da passare in rassegna.
Lo troverai, Rosetta, prima o poi vedrai che lo troverai.

21 aprile

Rosetta non crede al virus. Le sue paure sono altre, la guerra ad esempio. Quel piccolo spazio ricavato tra la porta della sala da toeletta e il marciapiedi, non é solo la sua casa. E’ anche un bunker, un rifugio antiatomico, uno spazio salvifico, uno scudo contro i proiettili delle armi di un nemico non meglio identificato.
La gente a casa, le strade deserte e tutto quel silenzio devastante, secondo lei sono dovuti ad un mostruoso conflitto dal quale lei, per adesso, vuole tenersi fuori.
“Mi sono rifugiata qui – dice – prima abitavo all’ospedale. Poi mi hanno cacciato via e sono venuta a stare qui; ma se volessi andrei fuori, li ammazzerei tutti e potrei andare ancora a vivere in ospedale. Perché non posso tornarci? Che male facevo lì?”
No, in ospedale no, Rosetta, non tornarci! Un rettangolo su un marciapiedi del centro, in questi giorni, chissà, é molto più sicuro.

23 aprile

Le note di September morn si diffondono nell’aria, ferme e sicure come una promessa mantenuta. Qualcuno, in via Etnea, sta ascoltando questa vecchia canzone che un amplificatore regala ai passanti.
Anche Rosetta, dal suo angolo di marciapiedi, ascolta la musica che, evidentemente, le evoca ricordi. Pensa a quando “abitava” in ospedale. Non ricorda esattamente quale: “Forse il Vittorio Emanuele?”.
Affiora, però, anche un piccolo ricordo doloroso. Quando viveva lì teneva con sé un pacco di vecchie foto, tante immagini di lei bambina, con sua sorella, con la sua famiglia. Ci teneva tanto. Poi qualcuno gliele rubò. “Chissà chi le ha prese. Forse non é stato un solo ladro”.
Immagini finite in più mani, separate l’una dall’altra. E’ come se la vita stessa di Rosetta fosse stata smembrata, lacerata, fatta a brandelli, dispersa.
C’erano anche le foto di un uomo col quale stava. Uno che l’amava tanto e che poi l’abbandonò.
Una storia finita e dunque, dolorosa, ma non una sconfitta definitiva, assoluta. Non una disfatta.
Rosetta, infatti, guarda oltre. “Troverò un altro uomo – dice sicura – sono certa di trovarlo”.

24 aprile

Pensavo che Rosetta considerasse quello spazio angusto, a cavallo tra la porta-vetrina di un negozio e la strada, la sua casa. E invece no, lei la considera la sua seconda casa. Come – per chi ha la fortuna di possederne- la casa dove andare d’estate, sul mare di Porto Palo o sulle colline di Zafferana.
“Qui – dice – sono in vacanza, questo é un posto, come si dice?, di relax”. Dice proprio così, Rosetta, “relax” e spiega che lì, si sente serena. Dopo un periodo nero in cui é stata male, agitata e infelice, e per farlo capire chiude gli occhi e passa le dita sulla fronte, a cacciare i fantasmi.
“ Parlo da sola”, aggiunge quasi a giustificarsi. Anch’io parlo da sola, le dico, capita a tutte le persone che lo sono, sole.
“Forse è perché parlo da sola che vogliono uccidermi. Potrebbero anche farlo, non mi interessa.”
Ma chi dovrebbe ucciderti, Rosetta?
“Quelli che stanno chiusi a casa o anche quelli che ogni tanto vengono fuori e sporcano dappertutto” e mi indica una signora, guanti e mascherina, che passa senza nemmeno accorgersi di quel fagotto di stracci che punta il dito contro di lei.
“Sì, intorno non c’é solo gente buona -dice- ci sono persone cattive”.
Penso a questa “casa delle vacanze” su una strada del centro di Catania e a questa donna che non possiede nulla. Come farà quando il parrucchiere aprirà di nuovo i battenti? La cacceranno via? “Andrò in giro di giorno ma poi di notte tornerò a dormire qua”.
Per Rosetta, il viso cotto dal sole e una valigia accanto, l’estate é già inoltrata. Oggi ha voglia di un gelato con biscotto, e a tre gusti.

28 aprile

“Io sono solo una manichina”. Credo di non aver sentito bene o forse non ho capito. Così glielo faccio ripetere. Rosetta, cosa vuoi dire?
“Sono una manichina, di quelle che stanno dietro le vetrine. Di quelle che chiunque può vedere, che non possono scappare, perché sono ferme, immobili”.
Completo nella mia mente: di quelle che sono in balia degli sguardi dei passanti. Di quelle che i vetrinisti spogliano e vestono a loro piacimento per catturare l’attenzione dei clienti. Bambole inerti.
Si sente una bambola, Rosetta che vive dentro una vetrina grande quanto la strada, in mezzo a fantasmi che le mettono paura.
Ne vede ovunque di nemici, anche dentro la sala da toeletta chiusa dal virus tanti giorni fa. “Mi vogliono uccidere – dice – ma io resisto. Bisogna lottare, lottare sempre”.
La lotta e la preghiera. Rosetta si fa il segno della croce e dice che Dio l’aiuta perché lei é buona anche con i cattivi.
Chi sono? Quelli che ieri le hanno regalato tante bibite. “Ho dovuto buttarle via – dice – Erano piene di veleno”.

30 aprile

Rosetta oggi ha voglia di parlare ma non solo di lei. Vuole sapere tutto di me, se abito vicino, se ho figli, se ho un uomo o se vivo sola, e come mai non ho un marito. Le rispondo punto su punto e con sincerità. Glielo devo. Lei mi ha regalato tanti pezzetti della sua vita. Anch’io le affido volentieri un po’ della mia.
Poi tira su i suoi stracci e mi fa vedere le caviglie. Sono gonfie e arrossate, le sente calde, bruciano. Problemi circolatori? E’ plausibile: vive giorno e notte accoccolata, la testa sulle ginocchia, senza muoversi o quasi.
Vorrei che un medico la visitasse ma rifiuta. “No – dice – non occorre. Iù bbona sugnu”.
E allora perché quelle caviglie rosse?
Sfoggia con sicurezza una serie di cause assolutamente improbabili. Nell’ordine. La gente incivile che getta in strada cose rosse come se il colore potesse trasferirsi dagli oggetti alle sue gambe. Oppure, un fiume di lava dell’Etna, rosso, caldo e pastoso, che arriva fino a lei. E infine, gli aborti, volontari ma subìti, i figli che avrebbe voluto avere e che non le hanno fatto tenere. Sangue e dolore, come quelli che rendono turgide le sue caviglie stanche.
Niente da fare per il medico. Tutto ciò che importa a Rosetta é che la lascino tranquilla, lì, in quel suo piccolo spazio sulla strada. Se le si vuol dare qualcosa, bene ma “Non c’é obbligo”, dice, e non smette di ringraziare.
Mette da parte il discorso delle malattie e alza la testa a guardare il cielo senza una nuvola. Vuole sapere se vado al mare. Poi torna a parlare di uomini. Mi augura di incontrarne uno e, strusciando pollice e indice, aggiunge “anche ricco”. Subito dopo, però, mi mette in guardia: “Attenta, non dare confidenza a nessuno”.

3 maggio

Oggi ho pranzato con Rosetta. Beh, in certo qual modo, abbiamo pranzato insieme, nel senso che abbiamo mangiato le stesse cose. Certo a distanza di sicurezza, anzi maggiore di quella imposta dalle ordinanze del Governo: io a casa mia e lei in quel suo rettangolino di spazio sulla strada, “protetta” da una valigia e da un ombrello nero, aperto a ripararla dal sole.
Un arancino caldo e una birra fredda.
Rosetta dapprima non si fida, é sospettosa: “Arancini? E dove li hai presi?”. Tranquilla Rosetta, l’ho fatto io, é buono.
Poi le sembra grande, “una palla”. Infine accetta e gradisce. Sono felice, davvero oggi non ho pranzato da sola.

Ada Baldanza Mollica