L’intellettuale, oggi …

Un riferimento o un fantasma?

Una bussola o una sagoma priva d’identità?

Un ruolo necessario della piramide sociale o una panchina sradicata, un emarginato, l’invisibile per definizione?

Ai posteri l’ardua sentenza? No! Nella società dell’oggi, quella anestetizzata dalla congiuntura economica in primis, dall’avanzata del “baratro materialista” in secundis, dal “nulla spirituale” in definitiva, la risposta.

Sono lontanissimi i tempi dell’agora delle antiche polis, tempio dell’idea, del feedback dialogico e dell’articolata costruzione del visus mundi. Sono lontani anni luce quelli in cui Mark Twain disquisiva pubblicamente sull’azione politica di Lincoln o sui diritti dei nativi d’America.

E sono ancora più distanti i tempi, a noi più vicini anche nello spazio, in cui Emile Zola prendeva posizione nell’affaire Dreyfus (1898), Albert Camus imbarazzava i politici della Grandeur e Bernard-Henry Lévy metteva la faccia sul caso del terrorista Cesare Battisti, sollevando, a torto o a ragione, un vespaio di polemiche e non poco sconcerto (2009). In ogni caso, la temperatura dell’intellettuale è stata sempre rilevata dal termometro sociale dell’opinione pubblica. Almeno in Francia, che sul piano culturale eccelle come nazione dinamica e illuminata; una fucina di idee; un laboratorio di giochi intellettuali molto attivo che riesce a condizionare, o quanto meno stimolare, se non addirittura orientare, l’opinione pubblica nell’esternazione di un giudizio sulle cose rilevanti della vita del Paese.

Bernard-Henri Lévy

Ma queste sono questioni d’Oltralpe.

E nel Belpaese? L’intellettuale nostrano è da considerarsi al rango dei filosofi di Platone, necessari punti cardinali nella governance dello Stato e della società o l’uomo invisibile, autoreferenziale, chiuso tra le cinta divine e inaccessibili di un sapere incomprensibile ai più?

Una sorta di estraneo indecifrabile dalla gente a cui egli riserva modus cogitandi inerenti ad una sorta di subordinazione classista contrapposta al disprezzo, all’indifferenza e all’emarginazione di intere classi popolari, interessate, di contro, ad altri contesti della vita quotidiana quali lo sport, le scommesse, la buona cucina, i telefilm, la cronaca dei format pomeridiani?

L’intellettuale nostrano ha un peso rilevante nella società italiana?

Senza entrare nel merito della storia dei nostri intellettuali, mi preme ricordare soltanto alcuni casi emblematici della posizione di malessere e/o di conflitto (nella migliore delle ipotesi, o non penetrano il cuore della gente, o diventano a turno il bersaglio di dardi polemici scagliati tra di loro e impregnati di invidia), registrati nella terra di Umberto Eco in cui sembra ristagnare la categoria.

Correva l’anno 1959: Salvatore Quasimodo fece appena in tempo a scendere dalla scaletta dell’aereo in arrivo dalla Scandinavia con il Nobel per la Letteratura che il Corriere della Sera salutò, con un articolo tanto irritante quanto lapidario, a firma di E. Cecchi, l’impresa culturale del poeta siciliano, reo di un conferimento del tutto immeritato.

Ancora prima, l’Einaudi aveva inumato, per fortuna non per molto, il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedua e, qualche tempo dopo, (correva l’anno 1975) Pier Paolo Pasolini analizzava, con la maestria di un anatomopatologo, l’involuzione sociale dettata dall’omologazione di massa scaturita da uno pseudo – progresso che a tutt’oggi relega, nel deserto spirituale o nella sabbie mobili del distruttivo materialismo, la condizione dell’uomo del post villaggio globale.

Un vero visionario … incompreso.

E come leggere il veto di Umberto Eco che, almeno nella nostra terra, ha “invitato” ammiratori e pseudo – tali a non “monumentalizzare” la sua parabola culturale con convegni e manifestazioni? Una scelta di stile, di opportunità culturale o semplicemente la manifesta volontà di sottolineare un qualche disagio con “colleghi” o detrattori?

E quanto determinano, oggi, l’interesse culturale, oltre la platea di nicchia, intellettuali del calibro di Corrado Augias, Umberto Galimberti, Alberto Angela, Massimo Cacciari, Piergiorgio Odifreddi, Roberto Saviano per fare qualche nome?

Corrado Augias

Quanto riescono a interrare nell’humus popolare i semi dell’attrazione, dell’interesse, dello stimolo culturale, dell’orientamento, della presa di posizione?

E ancora, quanto incidono sulle determinazioni o l’agenda della classe politica?

È un’armata temuta dai Palazzi del potere o beffeggiata?

Spostiamo il fuoco della riflessione nelle periferie della penisola, e non solo, laddove una pletora di giornalisti o “addetti alla cultura” scende, in prima persona, con la forza dell’intelletto, a elemosinar consenso elettorale contro l’esercito dei politici di vecchia scuola (di Prima e ultima Repubblica), appartenenti a categorie professionali estranee alla cultura, più settoriali e più abilmente e subdolamente affettuose con l’elettorato, e che, fatta qualche eccezione, è statisticamente umiliata in termini di consensi?

Come se un curriculum di siffatta natura, proiettato ad una gestione ideale della territorialità, pensata su una qualità di vita fatta di tutela ambientale, amore per il bello, per l’arte, salvaguardia di aree pedonali, di spazi culturali, in poche parole, di proposte in cui la cultura diventa, anche, baricentro di vita, trovasse muri impenetrabili nell’interesse contingente dell’elettore che spesso vive solo di scadente tornaconto personale.

L’intellettuale – politico non sempre, o quasi mai, è ben accetto come governante cui dar fiducia. L’intellettuale sembra condannato a un destino di subordinazione nella piramide dei ruoli sociali che contano.

Non è obelisco da osservare ai fini di un facile orientamento, né boa da tener sott’occhio nell’oceano tempestoso dei nostri tempi.

L’intellettuale, esso stesso, sembra rappresentare l’Index Librorum Prohibitorum a che cosa? Alle abitudini di vita della gente.

L’incomunicabilità con il resto del “mondo” è, sembra essere, una sua prerogativa.

Nemmeno il suo stile “irreverente e sacrilego” sembra scuotere un’opinione pubblica sempre più, culturalmente, ridimensionata nella quantità e nella qualità.

I messaggi indirizzanti ai destinatari, tanti, risultano imperscrutabili.

Una sorta di barriera “sociale”, un fossato medievale senza ponte levatoio sembra separare i “saggi” dalla moltitudine disorientata.

Come se Tom Sawyer fosse rimasto orfano di Mark Twain; Katharine Clifton de Il paziente inglese di Michael Ondaatje.

Il tempo dedicato alla lettura, e, quindi, al nutrimento dello spirito, se mai fosse stata un’abitudine di normale pratica esistenziale quotidiana, al pari delle moderne culture del nord Europa (dato Istat) è stato sostituito da quello dedicato ai social- network che tanto atrofizzano, tanto “oscurano”, quanto celebrano la massa di nuovi e pseudo – intellettuali che avanza e, istantaneamente, pretende ascolto immediato.

Cristallizzato, magari, da una montagna di like.

L’Eco allarmante di Umberto Eco si è infranto contro la montagna della massificazione.

Tutto parla. Tutto si livella. Poco si filtra. Nulla o poco resiste, in termini di differenziazione qualitativa, sotto la valanga dei dati che si materializzano a velocità e di continuo nei display di PC, smartphone, tv, nella carta stampata.

In altre parole: tutto scorre. E il surplus stanca. Velocità e stanchezza, i mali sociali al tempo del rover Curiosity, inumano la sosta. In primis quella culturale.

La coscienza nazionale appare sempre più impenetrabile da stimoli riflessivi radicanti e costruttivi, insensibile al macro – microcosmo cultura.

Il pensiero critico si è impantanato nella zavorra del disinteresse e dell’indifferenza generale.

Ed è, a mio avviso, inaccettabile la tesi di una regia del potere che tiene i sudditi in siffatte condizioni di buio culturale e mediocre interesse. Se dall’alto, difatti, cala la volontà di un opportuno controllo delle masse con bavagli ad hoc per certe iniziative dal forte impatto viscerale su scala nazionale, dal basso la volontà ad uscire dalle prigioni dell’oblio intellettuale è palese. E in tempi di globalizzazione la cosa, la stasi, l’accidia, il sonno, parafrasando Tomasi di Lampedusa, sono prove oggettive, e non indizi, contro la malafede del popolo.

Tempi che cambiano. Deserto che avanza. Intellettuali che si ritirano, paradossalmente, con l’habitus di rozzi, homo superatus, “barbaro” cacciato oltre i valli dell’interesse contingente.

Società che decade al tempo del “colera” sociale in apparente convincimento di slancio verso un inesistente benessere.