Quale ruolo avrebbe avuto Attilio Manca nell’operazione di Provenzano? Qui i magistrati della Procura distrettuale antimafia di Roma potrebbero sbizzarrirsi indagando sui movimenti compiuti dal giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto nell’autunno del 2003, per comprendere se è vero – come sostengono i familiari – che in quel periodo egli effettuò almeno una telefonata dal sud della Francia “per vedere un intervento chirurgico” (testuali parole riferite dalla madre), episodio smentito dalla Squadra mobile di Viterbo, secondo la quale il medico, in quei giorni, non si era allontanato dalla città laziale. La circostanza, però, è stata contraddetta clamorosamente dalla trasmissione “Chi l’ha visto?” (gennaio 2014), che attraverso i registri delle presenze, ha stabilito che Attilio risultava assente dall’ospedale di Viterbo proprio in quei giorni. Dov’era? Nessuno lo ha mai accertato. Anche su questo, dovrebbero essere spiegate tante cose.

Dopodiché potrebbero accertare se è vero che Provenzano – prima e dopo l’operazione – è stato nel Lazio, come emerge dalle carte, e se esistono collegamenti fra i movimenti del boss e l’ospedale “Belcolle” di Viterbo (magari attraverso qualche sanitario), prima struttura italiana che dall’inizio del Duemila curava i detenuti al 41 bis.

Dopodiché potrebbero convocare tale Vittorio Coppolino – padre di uno dei migliori “amici” barcellonesi di Attilio, gravitante nel giro ‘Corda fratres’ – ponendogli la seguente domanda: come mai nel febbraio 2004 lei confidò ai genitori del medico la circostanza dell’operazione di Provenzano, quando ancora la notizia era segreta? Da chi l’ha avuta? E come mai ha collegato l’intervento del boss con la morte dell’urologo? Dopodiché potrebbero ascoltare il figlio Lelio, e anche in quel caso potrebbero porgli un paio di domande: come mai in un primo momento lei ha dichiarato alla Polizia che il suo “grande amico” Attilio Manca detestava le droghe pesanti – tranne qualche canna fumata al liceo – e successivamente ha cambiato del tutto versione sostenendo che era un tossicodipendente? Perché questo cambiamento repentino, nel momento in cui la famiglia Manca ha cominciato a parlare di Provenzano?

Dopodiché non sarebbe male porre qualche domanda ad Ugo Manca (chi è, si deduce dalle inchieste precedenti): perché è piombato come un falco a Viterbo dopo la morte del cugino? Perché ha sollecitato insistentemente Gianluca – fratello di Attilio – a chiedere ai magistrati il dissequestro dell’appartamento, dove, fra l’altro, è stata trovata la sua impronta palmare? Cosa doveva fare lì dentro?

Dopodiché si dovrebbero riprendere le impronte digitali rinvenute nella casa del medico dopo il rinvenimento del cadavere, selezionare quelle degli amici abituali da quelle di chi è entrato per la prima volta in quell’abitazione, e stringere il cerchio su quelle che la Scientifica ha ritenuto “interessanti”.

Altra domanda. E’ possibile estrarre il Dna dagli altri oggetti sequestrati? Autorevoli ufficiali del Ris dei carabinieri dicono di sì, il Dna è possibile ricavarlo anche dopo molti anni, anzi, spesso attraverso il profilo genetico si sono risolti dei “cold case” archiviati da un sacco di tempo.

Dopodiché sarebbe interessante ascoltare Gianluca Manca: è vero che dopo la morte di Attilio un collaboratore di giustizia (o sedicente tale) l’ha voluta incontrare in una località segreta per farle delle confidenze sulla morte del suo familiare? Le ha detto per caso che il piano di morte, in un primo momento, doveva scattare a Barcellona Pozzo di Gotto, dove Attilio avrebbe trascorso le vacanze? Dopo la risposta (che non può che essere affermativa) non sarebbe male accertare se questo pentito esiste davvero o è un mitomane. Se esiste davvero, e se quel che dice è attendibile, non spetta a noi suggerire ai magistrati quel che dovrebbero fare: è scontato.

Il “contesto” barcellonese

Dopodiché sarebbe opportuno farsi descrivere il “contesto” barcellonese, e certi strani connubi fra mafiosi, politici, massoni e taluni magistrati. Sì, perché in quel territorio, all’epoca, era nascosto e protetto Bernardo Provenzano. Non il solo. Negli anni Novanta era stato nascosto e protetto Nitto Santapaola, e prima ancora il boss Gerlando Alberti jr (il mandante dell’omicidio della diciassettenne Graziella Campagna) e guarda caso a Barcellona è stato ucciso il giornalista Beppe Alfano, “reo” – secondo quanto rivela D’Amico – di avere scoperto (altra coincidenza) il covo segreto di Santapaola. E poi…

E poi – proprio nel momento in cui Attilio Manca avrebbe dovuto essere ammazzato, sempre secondo quanto dice il presunto pentito – c’era un investigatore integerrimo come il capitano Domenico Cristaldi, comandante della Compagnia dei carabinieri di Barcellona, autore di un rapporto esplosivo come l’Informativa Tsunami, dove venivano denunciati i rapporti fra mafia e Colletti bianchi della zona, rapporto che l’ex procuratore generale di Messina, Antonio Franco Cassata (residente da sempre nella sua città di origine, ovvero Barcellona), secondo quanto emerge dagli atti processuali, cercò di fare insabbiare. Quindi diciamo che in quel momento la presenza di questo ufficiale dell’Arma non garantiva la pax, condizione essenziale per portare avanti certe operazioni mafiose.

Beppe Alfano

La “zona franca”

Una “zona franca”, Barcellona, dove è successo di tutto, epicentro di troppe situazioni inconfessabili: dalle grandi latitanze di Stato al traffico di eroina, dal salto di qualità dell’eversione nera fino alla strategia stragista operante a Capaci (a Barcellona è stato costruito il telecomando della bomba che ha fatto a pezzi Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta).

Una città che non poteva permettersi un ulteriore delitto eccellente (sempre se è vero che Attilio Manca doveva essere assassinato proprio lì, ma ipotizziamo per un attimo che sia vero): si sarebbero accesi i riflettori, si sarebbe squarciato il velo su un potere che va oltre Barcellona e lambisce la Trattativa. Meglio, molto meglio, fare morire per “suicidio” questo medico che diventato troppo “pericoloso” per avere scoperto il vero volto di Provenzano e di tutti quelli che lo hanno protetto anche e soprattutto nel messinese.

Un’operazione del genere è possibile commetterla dove – per usare una metafora siciliana – ci sono “i cani attaccati”. E dove? Magari in una tranquilla città del centro Italia, dove “la mafia non esiste” e non ci sono “sbirri” come il capitano Cristaldi.

Dopodiché potrebbe essere sentita Sonia Alfano, figlia del giornalista assassinato. Sonia, ex presidente della Commissione antimafia europea, qualche anno fa è andata a visitare Provenzano in carcere chiedendogli di Attilio Manca. In una intervista rilasciata a chi scrive, lei stessa ha dichiarato: 1) di essere convinta che l’urologo sia stato ucciso nell’ambito dell’operazione a Provenzano; 2) di sapere qual è la struttura privata ubicata nell’hinterland barcellonese dove il medico potrebbe avere visitato il boss; 3) di avere rotto i rapporti con una parte della famiglia Alfano “da quando ho parlato di omicidio, e non di suicidio di droga”. Non sarebbe male approfondire anche questi tre aspetti, soprattutto i punti 2 e 3. I motivi potrebbe spiegarli la stessa Alfano.

La “folla” in sala mortuaria

Dovranno dircelo perché durante l’autopsia di Attilio c’era quella caterva di gente in sala mortuaria, tutti insieme appassionatamente ad assistere alla dissezione di un soggetto deceduto ufficialmente per overdose: dal personale della Polizia (non identificato e non accreditato di autorizzazioni del magistrato, almeno secondo le carte in nostro possesso) al misterioso P.F. (usiamo le iniziali per ragioni di privacy), qualificatosi “Medico della Polizia”, non sappiamo se “a voce” o mediante l’esibizione di documenti di cui, comunque, non sono stati registrati gli estremi. Una “folla” del genere per un morto di eroina…

Se è vero che in sala mortuaria erano presenti soggetti non identificati e non autorizzati, chi esclude che l’autopsia sia stata eseguita al cospetto di persone estranee?

Salvatore Gava

Giriamo queste domande a Giuseppe Pignatone e a Michele Prestipino, rispettivamente capo della Procura distrettuale antimafia di Roma, e procuratore aggiunto. Le carte di questa inchiesta si trovano sul loro tavolo da più di un anno. Non sarebbe male se, per prima cosa, ascoltassero i genitori e il fratello di Attilio Manca, per rassicurarli, per dire che lo Stato c’è ed è con loro (cosa che i magistrati di Viterbo si sono sempre guardati di fare). Dopodiché sarebbe interessante sentire gli artefici di questo ignobile scandalo da Paese sudamericano: Alberto Pazienti, Renzo Petroselli, Salvatore Fanti, Salvatore Gava, Dalila Ranalletta, rispettivamente capo della Procura di Viterbo, Pubblico ministero, Giudice per le indagini preliminari, capo della Squadra mobile, e Medico legale. Costoro dovranno dire se le sciatterie giudiziarie sono il risultato di incompetenza o di qualcos’altro.

7^ puntata. Fine.