Harlem è il quartiere dei “neri” che vivono a New York, le case basse e rosse che non sembrano far parte della Grande Mela. Quei neri che fino a qualche decennio fa erano ghettizzati, emarginati, esclusi dai rioni dei bianchi, se non per i lavori di cameriere, di portiere d’albergo, di facchino, di governante, quei neri che dovevano cedere il posto ai bianchi perfino sugli autobus.

Ad Harlem ho visto neri perfettamente integrati coi bianchi, allegri, colti, diversi da quelli oppressi che la letteratura e il cinema ci hanno descritto molto tempo fa, ma ne ho visti altri – soprattutto nella subway – sofferenti, gli occhi rossi e tristi, a volte anche chiusi per la fatica, mentre facevano ritorno dai sobborghi più sperduti della città, dove lavorano come muli dodici ore al giorno.

Oggi non si percepisce l’odio di molti anni fa, quando, in certi Stati dell’America, le bande di incappucciati del Klu Klux Klan, organizzavano le spedizioni punitive per uccidere i neri o solo per incendiargli le case e per dargli una lezione. Anni e anni di oscurantismo, di lotte, di sofferenze, di sangue hanno pacificato molte coscienze. I segni delle battaglie delle donne e degli uomini di colore che hanno reso grande questo Paese si riconoscono nell’integrazione che oggi si è raggiunta fra bianchi e neri e che è visibile anche nel quartiere nero.

Ma ce n’è voluta. Ad Harlem, come in tutti gli Stati Uniti. Qui ti spiegano che fino a una ventina di anni fa un bianco non poteva varcare i confini del rione, perché è vero che odio chiama odio, sangue chiama sangue, morte chiama morte e a un certo punto si perde il filo delle responsabilità, e chi non conosce la storia rischia di non comprendere chi è il carnefice e chi la vittima, dov’è il bene e dove il male, non si capisce di chi sia la colpa di un fenomeno complesso come l’odio razziale che negli Stati Uniti ha origini nel XVII Secolo, quando i neri furono deportati dall’Africa per essere schiavizzati.

Rosa Parks

Sono dovuti trascorrere quattro secoli affinché certe stratificazioni venissero rimosse, c’è voluto il sangue di Martin Luther King e di Malcom X, il coraggioso gesto di una donna comune, Rosa Parks, di non cedere il posto sull’autobus a un bianco che le aveva chiesto di alzarsi; le provocatorie prese di posizione di Cassius Clay che a un certo punto della sua grandiosa carriera di pugile decise di non partecipare alla guerra in Vietnam e di convertirsi all’islam, cambiando nome in Mohammed Alì; il gesto di protesta di Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo nella finale maschile dei 200 metri, il 16 ottobre 1968 durante le olimpiadi di Città del Messico: il pugno guantato di nero sollevato verso il cielo che portò il Black Power alla ribalta del mondo; il “new deal” di John Kennedy, presidente degli Stati Uniti assassinato nel 1963 a Dallas, artefice di una nuova politica basata sui diritti dei neri.

Un contributo alla normalità fra bianchi e neri, negli anni Novanta, è stato dato dal sindaco repubblicano di origini italiane Rudolph Giuliani, che ha messo al primo posto della sua agenda politica la sicurezza. Fino ad allora New York era una delle città più violente d’America, omicidi, rapine, stupri, borseggi, furti venivano commessi soprattutto nei quartieri come Harlem, a due passi dal Bronx, col quale confina, con cui condivideva questo triste primato. Così come condivideva il primato dell’uso di eroina, in cui controllo era saldamente nelle mani della mafia siculo-americana.

Con i dieci anni di Giuliani, la criminalità è stata azzerata attraverso la “tolleranza zero” inaugurata in quel periodo. Ma il “metodo Giuliani” non si è avvalso solo della repressione, quanto dell’integrazione, legalità e risanamento sono andati di pari passo, i temi cari alla destra repubblicana si sono sposati con i temi cari alla sinistra democratica.

Ecco allora che camminare ad Harlem, oggi, è davvero un piacere, perché vedi campi di calcetto, di basket, di baseball ad ogni angolo, e poi piazze, bagni pubblici puliti, piccoli ospedali, mini strutture per i ragazzi e per gli anziani. Come è un piacere vedere dei ragazzini di colore giocare a pallacanestro per emulare i campioni della Nba o i giocolieri degli Harlem Globetrotters – la squadra fondata nel 1927 che fa spettacoli in tutto il mondo – che qui sono nati e qui hanno iniziato a tirare i primi palloni nei tabelloni.

Oggi Harlem – secondo gli stessi abitanti – è tornata a vivere come un tempo, quando, fra gli anni Venti e Trenta, era abitata dagli Ebrei di origine tedesca che ne avevano fatto un centro di divertimenti per chi amava il jazz nero. Era il tempo di imprenditori ebrei come Oscar Hammerstein, l’inventore del cappello a cilindro, che per primo comprese le grandi potenzialità del quartiere.

Era il periodo delle sale da concerto e dei locali notturni come il “Cotton Club”, dei teatri come l’”Harlem Opera House” e il “Columbus”, locale destinato agli spettatori più esigenti il primo, locale destinato agli amanti dell’intrattenimento e dell’evasione il secondo. Ma il teatro più famoso del rione è l’”Apollo”, sulla 125th St, dove si sono esibiti i più grandi artisti d’America.

Il periodo di poeti come Langston Hughes, simbolo della poesia afro-americana che contribuì al rinascimento di Harlem attirando artisti da tutta l’America: “Scrittori e artisti si recavano ad Harlem da tutti gli Usa per partecipare ad un movimento, perché offriva loro la possibilità di diventare parte di una comunità vibrante”, scrive l’enciclopedia di New York.

Sono ad Harlem. Assisto alla Messa gospel in una chiesa Battista, uno dei riti più emozionanti della cultura afro-americana, dove bianchi e neri si stringono la mano, sorridono, vivono in armonia, mentre le voci pastose delle donne e degli uomini del coro si sprigionano in canti ora ritmati ora struggenti che raccontano il lato più profondo delle sofferenze e delle gioie di questo popolo che in questo momento è simboleggiato dalla vecchietta elegante – l’acconciatura fresca, il bastone, la gonna rossa, la borsetta viola – che accompagna la nipotina a servire la messa celebrata dal Pastore che ricorda il Reverendo Jackson. Passato e presente si incontrano in questa chiesa, per non perdere le radici. La nonna che ha conosciuto le ingiustizie, i soprusi, le prepotenze della cultura bianca, che trasmette alla bambina, assieme al bagaglio di identità che affonda le radici nell’Africa nera più profonda di qualche secolo fa.