Se perfino gli stessi magistrati di Viterbo – il procuratore Alberto Pazienti e il Pm Renzo Petroselli – hanno dovuto ammettere, per la prima volta in undici anni, davanti alla Commissione parlamentare antimafia, che l’autopsia sul corpo di Attilio Manca è stata eseguita in modo quantomeno pessimo, evidentemente il termine “depistaggio” non è così infondato come finora hanno voluto fare credere.

Perché se è vero che l’esame autoptico costituisce un pilastro fondamentale di una inchiesta giudiziaria, è anche vero che se viene eseguito con incredibile negligenza – come è stato detto in Commissione – è evidente che l’intera impalcatura investigativa è viziata da un peccato originale che contamina tutto il resto.

Certo, si può dissertare se errori così macroscopici dipendano da inesperienza o da dolo, ma dobbiamo chiederci perché il Medico legale che ha svolto l’autopsia – la dottoressa Dalila Ranalletta, moglie di Giuseppe Rizzotto, primario di Urologia di Attilio, colui che, secondo i familiari di Manca, “stazionava nervosamente davanti alla sala mortuaria dove si stava svolgendo l’autopsia, entrava ed usciva per prendere notizie, e sollecitava continuamente la moglie a sbrigarsi” –, perché questo Medico legale, invece di essere ridimensionato successivamente per gli errori commessi (in Commissione antimafia addirittura si è parlato di “radiazione dall’Albo professionale”), da quel momento abbia fatto una carriera così sfolgorante che nel giro di pochi anni l’ha portata da una piccola Usl della Tuscia alla dirigenza dell’Asp 1 di Roma e alla consulenza fissa della trasmissione “Quarto grado” di Mediaset.

 

Come mai il procuratore Pazienti e il sostituto Petroselli non hanno aperto un’inchiesta seria nei confronti della professionista, è stato detto a San Macuto, invece di imbastire un processo contro la vittima? Se ne sono accorti ora che la Ranalletta “era incompetente”?, è stato ribadito. Pare di no, dato che nel corso dell’audizione, Pazienti e Petroselli hanno ammesso che su quella discutibile autopsia hanno discusso ore e ore. Per arrivare a cosa? Ovviamente alla conclusione che Attilio Manca è morto per “inoculazione volontaria”. Ore ed ore di “ragionamenti profondi” per sentenziare una cosa non supportata da uno straccio di prova.

Dalila Ranalletta

Mettiamola come vogliamo, ma qui le cose sono due: o Attilio Manca è morto davvero per due banali iniezioni di eroina mista a una dose di alcol e tranquillante (ma questo lo devono dimostrare con delle prove serie), oppure è morto per cose talmente grosse da giustificare tutti questi pasticci. Tertium non datur.

 

Sì certo, i magistrati, a San Macuto hanno mostrato una foto che dimostrerebbe la non deviazione del setto nasale di Attilio (e allora devono spiegare chi, degli investigatori, il giorno stesso, ha dato la notizia al “Corriere di Viterbo” di “un marchio sul naso della vittima”). È stato detto che i testicoli di Attilio non si sarebbero ingrossati per un presunto calcio subito (anche se sullo scroto è visibile un grosso livido), ma per la reazione cadaverica dopo alcune ore dal decesso (perché nel referto autoptico questo non c’è scritto?). Sì certo, possono essere svelati dei particolari che smentiscono alcune ricostruzioni fatte in origine, ma non può essere cancellata la montagna di errori perpetrati sulla pelle di questo splendido ragazzo che a soli 34 anni era un luminare dell’urologia italiana, né può essere dimenticata la mancanza di umanità di una Procura che non ha mai sentito il dovere di ascoltare la versione dei familiari.

L’audizione dei due magistrati di punta della Procura viterbese apre scenari inconsueti sul loro stesso modus operandi quando hanno a che fare con casi di mafia. E qui non è solo il caso Manca a fare da paradigma. C’è il caso paradossale del valoroso magistrato reggino Giovanni Munarò (vedi articolo precedente), braccato dalla ‘nadrangheta calabrese, minacciato continuamente di attentati, aggredito nel carcere di Viterbo a pugni e calci, fino al tentato soffocamento, da un pericolosissimo boss con cinque ergastoli sul groppone, la cui posizione, in sede di indagine, sarebbe stata minimizzata, a parere dell’Antimafia, proprio da Petroselli e Pazienti. I quali – secondo quanto è emerso – non hanno neanche ritenuto di trasmettere gli atti alla Dda di Roma e di indagare fino in fondo (attraverso accertamenti patrimoniali) per verificare presunte corruzioni del personale penitenziario che non ha protetto il magistrato (come lui stesso aveva richiesto più volte).

E c’è il caso di una ventina di imprenditori viterbesi che da tempo denunciano l’espansione della camorra in quel territorio, dallo sversamento dei rifiuti tossici nei pressi dell’ospedale “Belcolle”, toh che coincidenza; al riciclaggio di denaro sporco..

In pratica sta succedendo a Viterbo quel che succedeva nella Sicilia di mezzo secolo fa, dove i crimini mafiosi venivano archiviati perché “non ci sono elementi”, quattro paroline magiche che Petroselli e Pazienti ripetono come un mantra, Quattro paroline che non sempre hanno fondamento, specie quando gli elementi ci sono, sono sotto gli occhi, ma si ignorano. In compenso vengono estrapolati i dettagli, si decontestualizzano, si assolutizzano e si spacciano come prova contro la vittima.

La storia del mancato rilevamento, per ben otto anni, delle impronte digitali sulle siringhe è emblematico. Emblematico anche il risultato, neutro, nel senso che non sono state trovate tracce, né di Attilio, né di altri. Eppure si continua a negare l’evidenza.

Eppure a ben pensarci (lo diciamo ironicamente) una “prova” contro Attilio Manca c’è. L’esame tricologico, al quale i magistrati di Viterbo – in mancanza di tracce sulle siringhe e di altri elementi probatori – si aggrappano per dimostrare che, attraverso l’analisi sul capello della vittima, sono state accertate pregresse assunzione di stupefacenti.

La Procura “dice” che l’espletamento del test ha dato esito positivo, quindi per proprietà transitiva Attilio Manca era un assuntore anche prima di quel maledetto 12 Febbraio 2004, quando fu trovato cadavere nel suo appartamento di Viterbo (città nella quale prestata servizio all’ospedale “Belcolle”) con due buchi al braccio sinistro e due siringhe rinvenute a qualche metro. Peccato che in tutto il corpo non siano stati trovati altri buchi, né recenti né datati.

Peccato che diverse cose non quadrino anche nel caso dell’esame tricologico. A cominciare dalla notifica dell’analisi che secondo Fabio Repici, avvocato dei Manca, e secondo la stessa famiglia, non sarebbe mai stata effettuata. In pratica, a dare la notizia dello svolgimento del test tricologico sono stati gli stessi magistrati otto anni dopo, “casualmente” durante una conferenza stampa.

Ora le cose sono due: o Repici e i Manca raccontano delle balle colossali, oppure davvero la notifica non è mai stata eseguita, quindi – come dice lo stesso Repici – l’esame è da considerare nullo.

Il vice presidente della Commissione antimafia, Luigi Gaetti (anatomopatologo con “duemilacinquecento autopsie” all’attivo, che ha studiato il caso dal punto di vista scientifico) ha contestato ai due magistrati un’altra circostanza incredibile, tirando in ballo indirettamente il tossicologo Fabio Centini dell’Università di Siena che ha eseguito il test: “L’esame tricologico – ha spiegato Gaetti – inizialmente si svolge sull’intera struttura capillifera per accertare l’esistenza di sostanze stupefacenti, ma poi, dato che il capello cresce di un centimetro al mese, va sezionato centimetro per centimetro per individuare il periodo dell’eventuale assunzione”. La versione ufficiale dice che il capello di Attilio conteneva tracce di stupefacenti, non si sa però risalenti a quando. Perché? Secondo Gaetti il sezionamento non è stato fatto. E allora? Se l’autopsia è monca, se le notifiche non sono mai arrivate, se le siringhe non sono state analizzate nei tempi dovuti, se l’esame tricologico non si sarebbe svolto secondo le consuete procedure, è lecito nutrire il dubbio che in questi undici anni potrebbe essere successo di tutto?

“Mi chiedo quale capello hanno analizzato – dice Angela Manca, madre dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto – dato che l’esame tricologico, per legge, è un test irripetibile, il cui esito va comunicato immediatamente. Al cospetto di tutte queste stranezze, mi chiedo se davvero abbiano analizzato il capello di Attilio”. E poi: “La verità è che mio figlio non si drogava. Era un ragazzo brillante, spiritoso, con un grande avvenire. L’hanno voluto fare passare per eroinomane cambiando le carte in tavola”.

Anche se Pazienti e Petroselli dicono che Attilio fosse un assuntore pregresso, questo non dimostrerebbe affatto – ribatte Gaetti – che si sia iniettato la dose di eroina che lo ha portato alla morte. Anche perché Attilio, da medico esperto in chimica, conosceva perfettamente l’effetto letale di quella miscela esplosiva, iniettata, tra l’altro, nel braccio sinistro, quello sbagliato, essendo un mancino puro.

Gaetti ha smontato pezzo per pezzo – almeno dal punto di vista scientifico – le conclusioni alle quali è giunta la Procura di Viterbo. I due magistrati prima si sono difesi attaccando, poi hanno tentato di abborracciare delle risposte, infine hanno dovuto ingoiare il rospo in silenzio. Specie quando la presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi, con un’ironia da fare a fette anche un toro, ha detto: “Signori, adesso che la seduta è alla fine salutiamoci senza problemi, ma ammettetelo: è stata un’inchiesta fatta male”. Silenzio imbarazzante. Il colpo del ko è arrivato prima dalla deputata Giulia Sarti: “La Commissione antimafia vuole accertare la verità, a prescindere se si tratta di una morte volontaria per overdose, oppure di un omicidio di mafia”.

Rosy Bindi

Poi da Gaetti e dalla Bindi: “Bisogna avere grande rispetto dei morti. In quest’inchiesta non ce n’è stato affatto”. Altro silenzio agghiacciante.

Ci sono troppe stranezze in questa inchiesta, Il rapporto Gava (vedi articoli precedenti) ha del clamoroso. Se da un lato registriamo le clamorose ammissioni, i balbettii, i silenzi imbarazzati e imbarazzanti dei magistrati, dall’altro registriamo l’incredibile esclusione della famiglia della vittima dalla parte civile al processo (con l’imbarazzante motivazione che non ha ricevuto danni dalla morte del congiunto), e l’incriminazione per calunnia nei confronti dell’ex Pm Antonio Ingroia (l’altro legale dei Manca), reo di aver parlato di “depistaggi” nell’inchiesta.

“Depistaggi perché la morte di Attilio Manca, come dice la famiglia, è da collegare con l’operazione di Bernardo Provenzano”. Epicentro Barcellona Pozzo di Gotto, dove la mafia locale è in stretto rapporto con quella Corleonese che nel ’92 ha fatto a pezzi Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti della scorta. Barcellona Pozzo di Gotto, dove hanno trascorso parte della loro latitanza dorata Provenzano e Santapaola (pezzi dello Stato, protetti dallo Stato e utilizzati dallo Stato, secondo le tante sentenze dei magistrati), dove è stato costruito il telecomando della strage di Capaci, dove è stato ucciso il giornalista Beppe Alfano (che aveva scoperto il covo di Santapaola) e dove vive e opera Ugo Manca, cugino della vittima, nonché personaggio funzionale a Cosa nostra in quanto “trait d’union” tra la manovalanza mafiosa ed alti esponenti della magistratura, della politica, della massoneria, e dei servizi segreti deviati. Condannato in primo grado a quasi dieci anni (ma assolto in Appello) per traffico di stupefacenti, Ugo Manca ha lasciato una impronta palmare nell’appartamento viterbese di Attilio. “Ero andato circa due mesi prima ad operarmi di varicocele”. Un intervento eseguito da Attilio che Ugo accusa di essere “drogato”. Il medico, secondo lo stesso procuratore Pazienti, avrebbe operato a Viterbo diversi personaggi barcellonesi portati da Ugo Manca. Chi? Boohhh? Eppure è stato accertato che un certo Porcino – un mafioso di primo piano oggi in carcere – è stato raccomandato da Ugo Manca per una visita da fare a Viterbo proprio da Attilio. Sulla presunta permanenza di Porcino nella città laziale è calato un silenzio di tomba.

Esilarante la testimonianza di un altro “grande amico” barcellonese, tal Lelio Coppolino, appartenente ai poteri forti della città: “Smentisco categoricamente che Attilio, contrario anche alle medicine, facesse uso di sostanze stupefacenti” (prima che venisse fuori l’ipotesi mafiosa). “Attilio si faceva di eroina anche con la mano destra” (dopo). Con i magistrati viterbesi che hanno assistito impassibili a queste clamorose ritrattazioni, ignorando le testimonianze di decine di colleghi, di infermieri e di amici laziali della vittima che hanno affermato il contrario.

Un’inchiesta bislacca, con tratti grotteschi evidenziati dalle risate ironiche della Bindi, che spesso si è dovuta frenare per il ruolo istituzionale che occupa. Una pagina tragicomica della giustizia italiana. Radio radicale ha registrato la seduta: basta digitare su un motore di ricerca le parole: commissione antimafia, Pazienti e Petroselli. Consigliamo vivamente l’ascolto. Molto istruttivo.