Solo “incompetenza” della Procura della Repubblica di Viterbo o qualcos’altro? Il caso di Attilio Manca andrebbe trasferito alla Procura nazionale antimafia per manifesta “incompetenza” dei magistrati – come giustamente proposto nei giorni scorsi dal direttore di “Antimafia 2000”, Giorgio Bongiovanni – o prima si dovrebbero capire le ragioni di certe incredibili omissioni, ed eventualmente aprire un’inchiesta?

Sì, perché a quasi dieci anni dalla morte di Attilio Manca, certe parole come “incompetenza” o “negligenza” non appaiono proporzionate a un’indagine dai contorni inquietanti come quella portata avanti dal sostituto procuratore Renzo Petroselli, avallato dal capo della Procura di Viterbo, Alberto Pazienti.

Ipotizziamo che dietro alla morte di Attilio Manca non ci sia la mafia. Ipotizziamo pure che si tratti di un ordinario fatto di cronaca nera – suicidio o omicidio – verificabile in qualsiasi città della provincia del Centro o del Nord Italia.

Ipotizziamo che la vittima sia un tossicodipendente (particolare assolutamente ininfluente per collegare una circostanza del genere con un enigma complesso come questo).

Per il caso Manca è necessaria una specifica competenza antimafia o è sufficiente fare delle indagini serie?

Quando non si prendono le impronte digitali su due oggetti che potrebbero risultare determinanti come le siringhe trovate a pochi metri dal cadavere (eppure le impronte sono state prese in tutto l’appartamento, nel garage e perfino nella macchina di Attilio; dappertutto tranne che su quelle due siringhe); quando non viene effettuato l’esame del Dna su certi oggetti trovati nell’appartamento; quando non si fa richiesta delle telefonate essenziali, possiamo parlare solo di “incompetenza”?

Invece in questa inchiesta ci sono degli strafalcioni talmente incredibili da fare accapponare la pelle perfino a un mediocre lettore di libri gialli. Bastava partire da quei pochi elementi a disposizione per produrre una ipotesi parallela a quella del “suicidio per overdose di eroina, tranquillante e alcol”, sostenuta con sicumera degna di miglior causa dai magistrati laziali: ovvero l’ipotesi del delitto di mafia semplice, o legata all’operazione alla prostata di un boss di Stato come Bernardo Provenzano. Bastava partire semplicemente da questo per capire meglio.

Due siringhe. Due buchi in un braccio. Due telefonate. Una impronta palmare. Un cadavere con il setto nasale deviato, dei lividi e un testicolo enorme. Elementi nudi, crudi, essenziali per condurre un’indagine a trecentosessanta gradi.

Il cadavere è quello di Attilio Manca, 34 anni, originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), in servizio da un paio di anni all’ospedale “Belcolle” di Viterbo, un grande urologo, il primo in Italia ad operare il cancro alla prostata con il sistema laparoscopico, appreso a Parigi poco tempo prima.

Le due siringhe. Trovate in cucina e nel bagno, con tappo salva ago inserito; “prove” inoppugnabili, secondo la Procura di Viterbo, del “suicidio per overdose”. Eppure vicino al cadavere vengono rinvenuti anche degli strumenti per le operazioni chirurgiche, mai visti prima (un bisturi, delle forbici e un ago con del filo da sutura inserito), un peso da ginnastica rotto, i granuli interni sparsi negli angoli più nascosti, una parte del parquet divelto.

I due buchi. Nel braccio sbagliato, quello sinistro, dato che Attilio è un mancino puro, mangia con la sinistra, scrive con la sinistra, opera con la sinistra, quindi quei due buchi sarebbero dovuti essere nel braccio destro.

Le telefonate. L’ultima, o meglio, la “presunta” ultima telefonata, quella dell’11 febbraio 2004, intorno alle 9 del mattino, il giorno prima del ritrovamento del cadavere. Attilio, in quella telefonata, fa un discorso apparentemente strano: chiede ai genitori Angela e Gino di portare dal meccanico la sua moto, che dovrà servigli per agosto, quando tornerà in Sicilia. “Ma siamo a febbraio – dice la madre –. Per agosto mancano sei mesi”. Attilio si arrabbia. Angela, che solitamente riesce ad interpretare anche i sospiri del figlio, stavolta non capisce. A distanza di quasi dieci anni dice: “Era un messaggio preciso. Che Attilio, in quel momento, non poteva rendere esplicito perché probabilmente si trovava al cospetto dei suoi carnefici”.

La parola in codice non è la moto, ma la località della casa al mare: Tonnarella, un paio di chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto, luogo dove grandi latitanti come Nitto Santapaola sono stati ben nascosti e ben protetti, ma soprattutto luogo che, secondo i familiari di Attilio, potrebbe essere legato al possibile passaggio di un altro grande boss, quel Bernardo Provenzano, protetto per quarant’anni dallo Stato, e in quel periodo bisognoso di cure per un cancro alla prostata operato appena tre mesi prima a Marsiglia, guarda caso col sistema laparoscopico. La moto da fare aggiustare è il pretesto. La richiesta è di duplice significato, secondo i familiari di Attilio: qualcuno si rechi urgentemente “sul posto”; se mi succede qualcosa sappiate che la chiave di volta è Barcellona Pozzo di Gotto. “Evidentemente Attilio, in quel momento, non poteva dirlo in modo esplicito. Era ostaggio di qualcuno”, dice la madre. “Per questo si è arrabbiato. Si è sentito impotente. È stata l’unica volta in vita mia in cui non ho capito mio figlio”.

Ma queste, diciamo, sono congetture. E prendiamole come tali. Almeno per ora.

La realtà ci dice che, attraverso quella telefonata, si sarebbero potute individuare due cose: il luogo dove in quel momento si trovava Attilio e forse le persone che erano con lui. Non è cosa da poco. Il luogo ci avrebbe detto “perché” Attilio era lì. Ed è quel “perché” a costituire ancor oggi uno dei tanti, vistosi “buchi neri” di questa inchiesta. L’11 febbraio 2004. Gli inquirenti non hanno mai saputo indicare dove e con chi è stato Attilio Manca il giorno prima di essere stato trovato morto.

Intanto quella telefonata “ufficialmente” non c’è. Per il sostituto procuratore di Viterbo, Renzo Petroselli, per il Procuratore capo, Alberto Pazienti, per gli inquirenti che si son occupati del caso, non è mai esistita. Si tratta, dicono, di fantasie di due genitori obnubilati dal dolore.

Peccato che di quell’ultima telefonata non siano testimoni solo i genitori, ma una schiera di investigatori, di parenti e di amici che, poche ore dopo la morte di Attilio, hanno posto ad Angela e a Gino la solita, semplice domanda che si pone a dei genitori dopo il decesso di un figlio: “Quando l’avete sentito l’ultima volta?”. “Ieri mattina verso le 9”. Chiaro, inequivocabile, lapalissiano. O no?

“Le cose sono due”, dicono Angela e Gino Manca. “O siamo dei folli, o la telefonata, chissà per quale misteriosa ragione, si è misteriosamente cancellata”.

Passiamo all’altra telefonata. Quella intercorsa fra Attilio e i suoi genitori nell’autunno del 2003, tre mesi prima della morte. Non da un posto qualunque, ma dal Sud della Francia. Non in un momento qualsiasi, ma proprio nel preciso momento in cui a Marsiglia è “sotto i ferri” Bernardo Provenzano – allora latitante con il falso nome di Gaspare Troia, non ancora identificabile da Attilio – per quel carcinoma alla prostata che gli sta creando problemi seri. Non per una vacanza qualsiasi, ma per “assistere a un’operazione chirurgica” (testuale frase riferita dai genitori).

Ebbene. Mentre la prima telefonata “non esiste”, la seconda non è stata richiesta dalla Procura di Viterbo alle società telefoniche. Oggi – a distanza di quasi dieci anni dalla morte di Attilio Manca – siamo fuori tempo massimo. Un tabulato telefonico, dopo cinque anni, viene distrutto, mandato al macero. Il fatto si è verificato nel 2003, gli inquirenti, malgrado le richieste della famiglia Manca e dell’avvocato Fabio Repici, fino al 2008 non hanno ritenuto di fare questo semplice riscontro. E anche quest’altro fatto è rimasto avvolto nel mistero.

Come sono rimaste avvolte nel cellophane della Polizia scientifica le due famose siringhe. Per otto anni i Manca e il loro legale hanno chiesto a gran voce di rilevare le eventuali impronte su quei due oggetti di fondamentale importanza, ma i magistrati hanno risposto che, siccome le siringhe erano troppo piccole, era impossibile effettuare questo esame. Basta consultare un comune investigatore per sapere se è possibile o meno prendere le impronte su delle superfici molto più piccole. Tutti rispondono: sì, è possibile.

Nel 2012 c’è voluta la richiesta del Gip perché quegli oggetti venissero analizzati. Ebbene: su una siringa non è stato trovato nulla, sull’altra una leggerissima traccia non ritenuta comparabile a una impronta, con una labile incrostazione di eroina.

Questo dimostra due cose: che intanto le siringhe non erano poi così piccole come asserito dalla Procura, e che non ci sono prove che ad usarle sia stato Attilio, così come non ci sono prove che siano stati altri. Peccato, però, che diversi elementi portino a privilegiare la seconda ipotesi. Innanzitutto per quel cadavere che, più che un suicidio da overdose, appare la “sintesi” di una colluttazione violenta ma brevissima,; poi per quella “location” non proprio ideale per un suicidio; infine perché chi ha usato le siringhe, o ha indossato i guanti (e Attilio non lo ha fatto, perché di guanti, nell’appartamento, non ne sono stati trovati, e dalle foto si vede che Attilio non indossa dei guanti); o ha cancellato le impronte, oppure ha sostituito le siringhe con cui ha drogato Attilio.

Evidentemente gli inquirenti, in tutti questi anni, hanno pensato che il dottor Manca, in preda alla sensazione psichedelica del “buco”, abbia riposto i tappi negli aghi ed abbia accuratamente pulito le siringhe dopo essersi drogato.

Tutto lascia supporre, invece, che l’urologo, con un’azione fulminea, sia stato picchiato, immobilizzato e drogato. In ogni caso, ci chiediamo: se quell’accertamento sulle siringhe fosse stato eseguito subito, e avesse dato l’esito negativo di otto anni dopo, l’inchiesta avrebbe preso quella piega? Si sarebbe parlato di suicidio da overdose? In questa maniera, invece, l’intera impalcatura investigativa è stata viziata per dieci anni da questa mastodontica omissione.

Nessuna risposta sul perché mancassero alcuni indumenti della vittima come le mutande, i calzini e la camicia, indossati fino ad alcune ore prima.

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Quello appena descritto non è un fatto di mafia, ma un fatto di cronaca nera che può verificarsi in una tranquilla città della provincia italiana.

A prescindere dal movente della morte, il comportamento degli inquirenti di Viterbo porta o no a pensare che l’”incompetenza” è il prezzo da pagare per non consentire all’inchiesta di fare il salto di qualità?

Il “salto di qualità” è il delitto di mafia, con gli elementi affiorati alcune settimane dopo la morte di Attilio.

In quel caso la Procura di Viterbo avrebbe potuto essere dichiarata “incompetente”, perché Viterbo non è Palermo, Napoli o Catania. Ma se anche senza la parola mafia non si eseguono accertamenti così elementari, viene il dubbio che nella città laziale c’è qualcosa che non quadra. Addirittura è stato escluso il delitto semplice. Magari ci saranno fatti inoppugnabili per sostenere questa tesi, ma una cosa è certa: le omissioni ci sono e sono gravissime.

E in casi analoghi l’esperienza ci insegna che più una morte eccellente viene “banalizzata”, più potrebbe avere dei retroscena clamorosi. La storia italiana è piena di questi episodi, da Pasolini a Fava, da Mattei a Moro, solo per citarne alcuni.

Perché il caso Manca potrebbe essere clamoroso?

Innanzitutto perché a dire che Bernardo Provenzano è stato operato a Marsiglia, e successivamente assistito in Italia “da un urologo siciliano”, è Francesco Pastoia, braccio destro del boss Corleonese, guarda caso impiccatosi nel carcere di Modena nel 2005. Nel periodo dell’operazione e del decorso post operatorio, “l’unico urologo siciliano” in grado di asportare un tumore alla prostata col sistema laparoscopico è Attilio Manca. L’unico a sapere dove mettere le mani per un intervento eseguito con una tecnica diversa dal tradizionale “taglio” è sempre Attilio Manca, magari coadiuvato da altri medici.

Quindi per una impronta palmare trovata nel bagno di Attilio. Un’impronta appartenuta al cugino Ugo Manca, condannato in primo grado al processo “Mare nostrum” a 9 anni e 8 mesi, in quanto ritenuto un trafficante di droga per conto della mafia barcellonese, ma assolto in appello, personaggio centrale in questa storia, ma con una posizione – almeno questa è la sensazione – ridotta a quella di un figurante o addirittura di una semplice comparsa. Ugo Manca giustifica quell’impronta dicendo di essere stato in quella casa due mesi prima, ospite del cugino per una banalissima operazione di varicocele eseguita da Attilio, alla quale si sarebbe potuto sottoporre benissimo all’ospedale di Sant’Agata Militello (presso il quale lavora), di Patti, di Barcellona, di Messina. Il fatto singolare è che da qualche tempo – da quando la famiglia di Attilio parla di omicidio mafioso – Ugo Manca, assieme ad altri “amici” barcellonesi, dichiara ai magistrati che l’urologo era un tossicodipendente, abituato a bucarsi anche con la mano destra. E allora perché decide di farsi operare da un drogato che può mettere a rischio i suoi organi genitali?

Il procuratore Pazienti e il Pm Petroselli, lo scorso anno, in una conferenza stampa, hanno dichiarato che Ugo Manca “a Viterbo era di casa”, essendo “il punto di riferimento delle operazioni dei barcellonesi all’ospedale di Viterbo”. Di che tipo di barcellonesi e di che tipo di operazioni si tratta? Ugo Manca è la cinghia di trasmissione fra il cugino e un certo tipo di ambiente?

A tal proposito, c’è un indizio da non sottovalutare: poche settimane prima di morire, Ugo raccomanda ad Attilio tale Angelo Porcino, condannato per estorsione e indicato dal pentito Carmelo Bisognano come “uno dei boss più importanti di Barcellona”. Ugo porta a Viterbo per operazioni, consulti e visite solo Porcino o altri personaggi appartenenti a un certo mondo? Addirittura risulta che Porcino – gestore di una sala giochi – non possieda neanche un cellulare. Quindi non si sa se Porcino sia stato davvero nel Lazio pochi giorni prima della morte di Attilio. Da questo esempio, in ogni caso, si desume che Attilio potrebbe essere stato il chirurgo di certe persone che hanno avuto l’esigenza di essere curate lontane dal loro ambiente.

Che c’entra Barcellona con Bernardo Provenzano? La stessa cosa che c’entrano con “Binnu ‘u tratturi” personaggi come Giuseppe Gullotti, Pietro Rampulla e Rosario Cattafi. I primi due hanno recapitato a Bernardo Brusca il telecomando della strage di Capaci, il terzo è stato ritenuto (poi assolto) uno dei mandanti esterni della strage di Capaci. Addirittura pare che Cattafi – oggi presunto pentito – sia più potente degli stessi Provenzano e Santapaola, al punto da essere nelle condizioni di indirizzarne le decisioni. Non un semplice boss, ma uno dei pochi mafiosi in grado di interagire con i servizi segreti deviati, con certa politica e con la massoneria deviata.

Cattafi a Barcellona fa parte del circolo “Corda fratres”, dove c’era anche Gullotti e dove ci sono ancora l’ex Procuratore generale della Corte d’Appello di Messina, Franco Antonio Cassata (intimo di Cattafi), l’ex ministro Domenico Nania, l’ex sindaco Candeloro Nania, l’ex presidente della Provincia, Buzzanca. Non un circolo come tanti, ma un circolo “para massonico” (secondo la Guardia di Finanza) dove, in mezzo a diversa gente perbene, ci trovi un gruppo di potere molto unito e coeso. Di questo gruppo fa parte anche Ugo Manca, amico intimo dei boss, come dei “colletti bianchi”.

Ugo Manca, adesso, assieme ad altri quattro barcellonesi (compreso Porcino) esce dall’inchiesta per volere del Gip, su richiesta del Pm Petroselli. Che in questi anni ha chiesto per ben tre l’archiviazione dell’inchiesta.

Adesso resta indagata ufficialmente una presunta spacciatrice romana che, secondo i magistrati, avrebbe ceduto ad Attilio la “dose mortale”. Quindi non più mafia, ma solo droga, così come la Procura viterbese ha sempre teorizzato.

Una decisione che ha fatto mobilitare centinaia di gente comune e diversi intellettuali che, tramite, facebook, hanno espresso la loro indignazione.

Lo scorso 2 settembre un corteo pacifico ha attraversato le vie di Barcellona Pozzo di Gotto: circa trecento persone – assieme al leader delle Agende rosse Salvatore Borsellino, all’europarlamentare Sonia Alfano, al presidente di Azione Civile Antonio Ingroia, al sindaco di Messina Renato Accorinti, al sindaco di Barcellona Maria Teresa Collica – si sono stretti attorno alla famiglia Manca, chiedendo verità e giustizia su un caso ancora irrisolto.

Il 30 settembre, alla Camera dei deputati, sarà presentato il libro di Luciano Armeli Iapichino, “Le vene violate”, un dialogo interiore con l’urologo Attilio Manca.

Sarà un’impressione, ma crediamo che questa storia non finisca qui.