Non sappiamo se Leoluca Orlando vincerà o se perderà le elezioni per il nuovo sindaco di Palermo, ma sappiamo che contro di lui si scateneranno tutti, da destra e da sinistra.

Nelle stagioni delle grandi transizioni, che di solito si trascinano delle crisi economiche imponenti, la gente vuole facce nuove, giovani sorridenti. E allora i vecchi volponi, sempre pronti ad assecondare la “pancia”, si appostano dietro le quinte, piazzano una bella faccia al centro della scena, e tirano i fili.

C’è una pagina memorabile del “Gattopardo” in cui Tomasi di Lampedusa descrive questa condizione. In Sicilia è appena sbarcato Garibaldi, è un momento di transizione, gli aristocratici (molti dei quali alleati con la mafia) tremano, sanno di perdere i loro secolari privilegi, e studiano il modo di riciclarsi nella nuova classe al potere: “Voi adesso avete bisogno di giovani svelti, di giovani che siano abili a mascherare il loro interesse particolare con le vaghe idealità politiche”.

Dalle nostre parti la politica non è una cosa semplice, i colori preponderanti non sono il bianco e il nero, ma il grigio. In un posto dove gli strumenti culturali per comprendere il linguaggio criptico del potere sono quasi inesistenti, l’apparenza e la realtà hanno confini labili, sfumano, si confondono.

E allora è bene raccontarla questa politica dell’apparenza e della realtà, del bianco e del nero. Le prossime elezioni palermitane sono una metafora straordinaria per capire di cosa stiamo parlando.

A Palermo ci sono un sacco di candidati per la carica di sindaco. I più importanti sono tre. Due giovani e uno meno giovane (almeno all’anagrafe).

Quello del centrosinistra si chiama Fabrizio Ferrandelli, quello del centrodestra Massimo Costa, quello dell’Idv e di altri partiti della sinistra Leoluca Orlando, del quale parleremo dopo. Intanto concentriamoci sui “giovani”.

Di Costa sappiamo chi sono i registi: Berlusconi, Dell’Utri, Miccichè, La Russa, Angelino Alfano, Schifani e quella pletora di personaggi che hanno fatto grandi fortune politiche grazie alla “discesa in campo” del Cavaliere.

Può piacere o no, ma si tratta di uno dei pochi punti di chiarezza delle elezioni palermitane. Costa e i pupari del Pdl. Due più due uguale quattro. Stop.

I conti non tornano quando si parla di Ferrandelli. Tutti sanno che i suoi registi sono i protagonisti dell’inciucio tra il Pd siciliano e il governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo: ovvero Antonello Cracolici e Beppe Lumia, quest’ultimo protagonista anche dell’inciucio di Termini Imerese, un’altra operazione di dubbia chiarezza che ha avuto il “merito” di fare allontanare i pezzi più importanti della Società civile dal Partito democratico e dalla politica.

Ma lui, Fabrizio Ferrandelli, a ogni piè sospinto smentisce alleanze con il governatore. Almeno per ora. E fino a prova contraria abbiamo il dovere di credergli. Il tempo ci dirà se dichiara il vero o se ci ha presi in giro. Ma il problema, adesso, non è questo.

Il problema riguarda i rapporti di forza all’interno del centrosinistra qualora Ferrandelli dovesse diventare sindaco.

È chiaro che in una eventualità del genere, chi trarrebbe giovamento sarebbero i registi di questa operazione. E di conseguenza la loro politica. Da un trionfo di Ferrandelli a Palazzo delle Aquile, troverebbero legittimazione Lumia e Cracolici e quindi il loro inciucio alla Regione. Su questo non dovrebbero esserci dubbi.

Ecco perché Ferrandelli evita (per ora) un accostamento visibile con i suoi registi. Difficilmente in pubblico si fa vedere con loro, molto meglio Sonia Alfano e Rosario Crocetta, due antimafiosi che hanno ritenuto di schierarsi da quella parte, rifiutandosi di allearsi con un simbolo dell’antimafia come Rita Borsellino, sconfitta alle primarie proprio da Ferrandelli.

Palermo non è una città come tante. Ha bisogno di essere amministrata da persone oneste e preparate, ma anche da simboli forti. Essere solo giovani probabilmente non basta, a maggior ragione se dietro ci sono i fautori di un accordo scellerato come quello col governatore siciliano.

Ora, quando si parla di Lombardo, non si parla di un politico chiacchierato. Si parla di un signore che ha rapporti provati con i clan mafiosi, che è stato imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, salvatosi in extremis per un’interpretazione iper garantista che la Cassazione (vedi sentenza Dell’Utri) da qualche tempo dà al concorso esterno, di un signore che da sempre ha fatto del clientelismo il suo modus operandi, di un signore che ha conosciuto la galera, che a volte è stato prescritto, a volte assolto, ma che non può essere considerato un personaggio col quale, chi si intesta le battaglie sulla questione morale, può fare accordi.

Se succede – chi si intesta quelle battaglie – si deve assumere le sue responsabilità e non si deve lamentare se viene additato come complice di una cattiva politica. Sia con un sostegno diretto, che indiretto.

Se non si pianta questo paletto fondamentale, tutto diventa apparenza, perfino il bene e il male si confondono, e purtroppo, in questo Paese, il senso del bene e del male si è perso a causa di queste gravissime ambiguità che la classe politica ha inculcato alla gente.

In questa elezione per la poltrona di sindaco di Palermo, l’equivoco – dispiace dirlo – non è il candidato del centrodestra, ma quello del centrosinistra, o meglio, chi c’è dietro le quinte, da cui Ferrandelli si guarda bene dal prendere le distanze. Del resto come potrebbe? Può l’attore fare a meno del regista?

E continua a dire, Ferrandelli – malgrado le palesi irregolarità riscontrate in alcuni gazebi – che le primarie del centrosinistra si sono svolte regolarmente.

Mettiamola così: regolarmente in certe zone, irregolarmente in altre. Saranno poche, saranno tante, sarà anche una, non ha importanza.

Le primarie devono essere innanzitutto una prova di trasparenza, di lealtà e di sani principi, quanto meno per evitare che l’opinione pubblica dica “i politici sono tutti uguali”. Il fatto che in alcuni quartieri palermitani l’acqua sia diventata torbida, dimostra che Ferrandelli, oltre ad essere portatore dell’equivoco Lombardo, è portatore dell’equivoco primarie.

E noi spettatori assistiamo sgomenti a questa commedia dell’assurdo.

Bisogna davvero raccontarla questa storia per capire l’Italia del 2012.

Tutto parte diversi mesi fa, quando il centrosinistra cerca il candidato per la poltrona a sindaco di Palermo.

Da tempo Leoluca Orlando dichiara di volere essere lui il candidato. È stato il sindaco della “Primavera”, alle ultime elezioni la vittoria gli è stata scippata da Cammarata per una serie di brogli elettorali accertati in diversi seggi, quindi Orlando ritiene che fosse naturale una sua ricandidatura.

Manco per sogno! Un pezzo del centrosinistra insorge. Orlando? È vecchio! Ci vogliono facce nuove. E poi che fa, “s’arripresenta” dopo essere stato sconfitto da Cammarata?

Orlando insiste, “mi candiderò anche senza il volere della coalizione”.

Del resto, a Palermo, Orlando – pur non godendo dei consensi plebiscitari di un tempo – è ancora considerato “u sinnacu” da molta gente, specie dopo il disastro che Cammarata ha combinato al Comune.

Dai più stretti collaboratori viene descritto come un solista, un accentratore, uno che ama essere protagonista, a volte oscurando gli altri. E sarà pure vero.

Ma bisogna guardare anche i lati positivi: l’amore profondo per la sua città, la straordinaria cultura, la generosità, l’entusiasmo per le sue battaglie, le battaglie, spesso solitarie, condotte contro la mafia, contro la corruzione, contro Andreotti, contro Lima, contro Berlusconi, insomma contro il sistema politico-mafioso di questa Nazione.

Leoluca Orlando non è un personaggio come tanti, per molto tempo è stato “il” personaggio. “Il” personaggio politico di questo Paese più popolare all’estero, ma anche quello più censurato in Italia.

Un esempio? Quando qualche anno fa il Parlamento doveva votare il presidente della Commissione di vigilanza della Rai, che spetta sempre all’opposizione. Il centrosinistra compatto indica il nome di Orlando. Ma ecco che il centrodestra insorge. Leoluca Orlando? Una bestemmia! Per ben due anni il presidente della Commissione non è stato nominato per un espresso veto di Berlusconi. Chissà perché.

È interessante seguire il percorso politico dell’ex sindaco della “Primavera palermitana” perché da questo possiamo comprendere diverse cose, soprattutto il livello di democrazia esistente nel nostro Paese.

Orlando fu osannato dalle prime pagine dei giornali quando, dall’interno della Dc, diceva “la mafia ha il volto della istituzioni” oppure “Andreotti è il garante della mafia”.

Ma fu completamente oscurato quando, uscito dalla Dc, fondò la Rete assieme a Caponnetto, a Dalla Chiesa, a Fava, a Pintacuda, a Novelli, a Galasso e a tantissime persone della Società civile, non per fare opposizione, ma per diventare una forza di governo in grado di cambiare il Paese.

Tutto questo non avvenne per caso. Avvenne all’inizio degli anni Novanta, quando sotto i colpi di Mani pulite, il potere democristiano stava crollando rovinosamente. Ma quei colpi non li aveva assestati solo Mani pulite.

Dal punto di vista politico, c’era stato Novelli a Torino, Galasso nelle aule di giustizia, Fava con I Siciliani, Caponnetto col “pool” antimafia assieme a Falcone e Borsellino, Pintacuda con il centro “Pedro Arrupe”, Dalla Chiesa a Milano con “Società civile”.

Di questa avanguardia, Leoluca Orlando fu il leader, non meno degli stessi Falcone e Borsellino. Qualcuno potrà pure gridare al sacrilegio, allo scandalo, ma se ha memoria corta o è troppo giovane, è pregato di consultare le collezioni dei giornali del tempo.

Cerchino di ricordare i professionisti dell’amnesia cosa succedeva quando in un teatro di duemila posti interveniva uno di questi personaggi, cerchino di ricordare cosa succedeva quando c’era Orlando. Un entusiasmo travolgente.

Non era un’elite, ma il cittadino comune, la casalinga, l’operaio, il professore, il disoccupato, l’avvocato, il cassintegrato, il notaio, i giovani, gli anziani a partecipare.

La “pericolosità” di questo movimento, il potere la comprese benissimo. E la compresero benissimo certe frange consociative del vecchio Pci (poi Pds, poi Ds, ora Pd) che in cambio di una finta opposizione al potere ricavavano delle notevoli rendite di posizione. Ormai il vero avversario, per queste frange della sinistra, non era Andreotti, ma Orlando. Un fuoco di fila che proveniva da destra e da parte della sinistra.

Da quel momento Orlando scomparve dalle prime pagine dei giornali e dalle televisioni.

Sì, perché fino a quando il dissenso è interno, va benissimo, fai notizia e legittimi pure il-Paese-libero-e-democratico, ma quando ne esci, magari per costruire qualcosa di alternativo, devi semplicemente sparire dalla faccia della terra, non devi esistere, non sei mai esistito. Anche per quei giornali tradizionalmente democratici.

Negli ultimi due decenni della Prima Repubblica, la corruzione non era più un fatto fisiologico come nel passato, ormai era un fenomeno “sistemico”, erano coinvolti in tanti, in troppi, e questi non potevano permettersi di aprire gli armadi pieni di scheletri.

Fu così che arrivò il Cavaliere, “nuovo” anche lui, “giovane” anche lui, malgrado le 58 primavere sulle spalle, “sorridente” anche lui. Anche lui arrivato in un momento di transizione e di gravissima crisi economica.

“Toglietevi dalla testa che il ‘mafioso di Arcore’ sia sceso in campo ‘solo’ per difendere i suoi interessi”, disse Bossi nel ’94 in una intervista all’”Espresso”, dopo aver fatto cadere il Berlusconi I. E ancora: “Lo ha fatto ‘anche’ per questo, ma principalmente lo ha fatto perché il sistema corrotto di cui fa parte ha individuato in lui la persona che, con le sue televisioni, può tenere in piedi il sistema della Prima Repubblica”. Più chiaro di così.

Berlusconi non era un imprenditore qualsiasi: era un giovanotto che, secondo i magistrati, con i capitali sporchi del boss palermitano Stefano Bontade – tramite Dell’Utri – aveva investito nell’edilizia e nelle televisioni a Milano.

Era iscritto alla P2 e, a suon di tangenti, si era legato a Craxi. Questo gli aveva consentito di ottenere privilegi colossali, non ultima la legge Mammì che in questi decenni gli ha permesso di trasmettere su tutto il territorio nazionale a scapito di altri imprenditori televisivi.

Sarebbe bene che quelli con la memoria corta consultino anche il repertorio di certe trasmissioni dell’epoca. “Sgarbi quotidiani” per esempio. Ce n’è una memorabile, prezioso esempio per gli studiosi di Sociologia e di Scienze della comunicazione di cosa voglia dire “plagio di massa”.

Al centro lui, vittoriosgarbi. In secondo piano l’immagine di Hitler. Accanto a questa, l’immagine di Orlando. “Vedete? Hanno lo stesso ciuffo”, dice vittoriosgarbi. E poi: “Secondo la tesi del Lombroso, chi ha certi tratti del volto è portato a delinquere. Se Hitler e Orlando hanno lo stesso ciuffo, Hitler e Orlando sono capaci di delinquere. Se Hitler ha sterminato sei milioni di ebrei, Orlando cosa sarebbe capace di fare?”.

Un vittoriosgarbi oggi, un emiliofede domani, un vittoriofeltri dopodomani, e poi un giulianoferrara, un paololiguori ed ecco il “metodo Goebbels” dei giorni nostri: “Se una bugia la pronunci una volta resta una bugia, ma se la ripeti cento, mille, diecimila volte diventa una verità, la gente ci crede”.

Ovviamente non solo su Orlando, ma su Borrelli, su Di Pietro, su Caselli, su quei magistrati che, guarda caso, indagavano sull’asse Milano-Palermo. Oggi c’è Ingroia? Il “metodo Goebbels” deve colpire anche lui.

Ma il capolavoro arrivò quando Orlando si mise in polemica con Falcone a proposito delle “verità nei cassetti”.

Cos’era? In pratica Orlando attaccava la procura di Palermo (soprattutto il procuratore Giammanco) di avere le prove per incriminare Salvo Lima, i cugini Salvo e il sistema di potere che portava ad Andreotti.

In realtà, già dagli anni Sessanta, si sapeva che questi personaggi erano invischiati fino al collo con le organizzazioni criminali. Il giornale “L’Ora”, per tanto tempo, ne fece uno dei più clamorosi cavalli di battaglia.

Giovanni Falcone, da magistrato, era più prudente, voleva delle prove più consistenti, Lima e i cugini Salvo mica erano personaggi qualsiasi: erano i proconsoli che – come Genco Russo, come Calogero Vizzini, boss di Villalba e di Mussomeli, all’indomani dello sbarco degli anglo-americani in Sicilia, furono nominati dai vertici di quegli eserciti, sindaci dei loro rispettivi paesi – agivano nella periferia dell’impero per stabilizzare l’impero. Erano dunque ingranaggi fondamentali dello Stato.

Non bisogna neppure dimenticare che in quel periodo Tommaso Buscetta, alla domanda di Falcone, “Chi sono i referenti politici della mafia”, si rifiutò di rispondere e disse: unn’è ura, non è ora di dire certe verità, il sistema è ancora fortissimo, mi prenderanno per pazzo e a lei, signor giudice, l’ammazzeranno.

La polemica toccò il suo culmine durante il processo Dalla Chiesa, quando il pentito Giuseppe Pellegriti – poi screditato a proposito del delitto Fava – dichiarò in aula che il mandante dei delitti politici di quegli anni era proprio Salvo Lima. Nel giro di ventiquattr’ore, Falcone lo incriminò per calunnia.

Salvo Lima e Giulio Andreotti

Ma la polemica continuò. Accadde quando il magistrato antimafia accettò la proposta del ministro Claudio Martelli di trasferirsi a Roma al ministero di Grazia e giustizia.

Ancor oggi i professionisti dell’amnesia, quando devono colpire Orlando, ricordano quell’episodio, dimenticando cos’era il partito socialista del tempo, i voti che prendeva nei quartieri ad alta densità mafiosa, le tangenti del traffico di armi e di droga, l’inchiesta del giudice Carlo Palermo nello stesso periodo in cui subì l’attentato che fece a pezzi una donna e due bambini, le tantissime mazzette che finivano al Psi, la campagna sui Pm da mettere sotto il controllo del potere esecutivo.

I professionisti dell’amnesia ripetono ancor oggi gli slogan di vent’anni fa, ovviamente senza contradditorio, e riempiono le pagine di facebook di volgarità, magari diffondendo il brano del “Maurizio Costanzo Show” in cui Orlando e Galasso criticarono Falcone per la scelta di trasferirsi a Roma.

È fondamentale rivedere quel brano, ma è fondamentale rivederlo senza pregiudizi e con estrema onestà intellettuale. E poi dire serenamente se si trattò di una delegittimazione o di una critica democratica nei confronti di un magistrato con il quale, dopo tante battaglie condotte dalla stessa trincea, non c’era la sintonia di un tempo.

Perché non si sta ai fatti? Perché escludere che Orlando ragionava da politico, e Falcone da magistrato? Perché non pensare che ognuno guardava lo stesso fenomeno ma da un’angolatura diversa?

Personalmente credo che avesse ragione Buscetta: i tempi non erano maturi per far saltare il sistema, ma che avessero ragione sia Orlando che Falcone.

E questa ritengo sia stata la stessa conclusione alla quale arrivò Antonino Caponnetto, il quale, dopo l’omicidio Falcone, pur continuando a onorare la memoria del giudice antimafia, non ebbe esitazione a schierarsi con Orlando per portare avanti il progetto della “Rete”. Se Caponnetto era consapevole della malafede di Orlando perché rimase al suo fianco?

E perché, pochi giorni dopo la strage di Capaci, Paolo Borsellino partecipò a una manifestazione tenutasi nel chiostro di Casa Professa, a Palermo, al fianco di Orlando (che era l’organizzatore) per commemorare Giovanni Falcone?

Attendiamo risposte.

La verità è che Orlando, con le sue fortissime denunce sulla mafia, sulla P2, sulla massoneria, sui servizi segreti deviati, sulla corruzione, era diventato troppo scomodo. E doveva essere espulso dal sistema. Non poteva essere ucciso, era diventato troppo popolare, in Italia sarebbe scoppiato l’inferno. Si preferì risolvere la faccenda “politicamente”. E allora tutti parteciparono al massacro, giornali e TV in prima linea: in gioco c’era il sistema, bisognava mobilitare i carri armati.

L’assassinio di Falcone fu l’occasione propizia per sparare contro Orlando.

Basta guardare – ancor oggi – certe trasmissioni nelle quali si parla della Palermo degli anni Ottanta e Novanta: i delitti eccellenti, la morte dei grandi boss, l’ascesa al potere dei “Corleonesi”, di Lima, di Ciancimino, il maxiprocesso, Chinnici, Dalla Chiesa, i sindaci come Martellucci, Insalaco, Elda Pucci, Domenico Lo Vasco, ma non si sente mai “Primavera palermitana”. Una coincidenza anche questa, certo.

Il berlusconismo non si è caratterizzato solo per il tentativo di revisionare la storia del fascismo, per le censure sui mandanti esterni delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, per i programmi insulsi che hanno rimbecillito milioni di persone.

Si è caratterizzato anche per aver rimosso dalle coscienze di milioni tanti italiani un’esperienza esaltante come la “Primavera” presa a modello da tutta Italia. Il risultato è che alcuni hanno dimenticato, mentre altri vengono presi da una sorta di sindrome solo a pronunciare certi nomi.

Ecco che allora, con la cancellazione della “Primavera” e con il ridimensionamento di Orlando, il gioco dell’apparenza riesce benissimo, il vero e il falso si mescolano, il bene e il male si confondono, al punto che si arriva a dire che siccome Orlando non è stato ammazzato, non è credibile, come se per essere credibili, in questo Paese, sia necessario che ti ammazzino.

Torniamo ai giorni nostri.

Dove eravamo rimasti?

Da mesi Orlando annuncia la sua candidatura, ma una parte del Pd, spalleggiata dall’europarlamentare dell’Idv Sonia Alfano, si oppone.

Quest’ultima, prima annuncia la sua candidatura in una intervista alla rivista “Vanity Fair”, sfumata la quale – come specifica lei stessa in una lettera – cerca di convincere una titubante Rita Borsellino a candidarsi. Stessa cosa viene fatta dal Partito democratico ufficiale.

Quando finalmente la Borsellino opta per la candidatura, Orlando rinuncia alla sua decidendo di appoggiare la sorella del magistrato ucciso in via D’Amelio. Non è un semplice appoggio, ma un’alleanza vera e propria. In conferenza stampa sia Leoluca che Rita escludono un’alleanza con Lombardo.

A quel punto spunta fuori la candidatura di Ferrandelli, sponsorizzata dalla stessa Alfano e dal duo Lumia-Cracolici che vanno in controtendenza con il partito ufficiale.

Si svolgono le primarie. Vince Ferrandelli. La Borsellino presenta ricorso ai garanti del Pd dichiarando senza mezzi termini che allo Zen il voto è stato inquinato.

Dopo una inchiesta, i garanti confermano: la denuncia dell’ex vice presidente di Libera è fondata. Nel frattempo le forze di polizia e la magistratura indagano su altre presunte irregolarità verificatesi in altre zone della città. Malgrado la nuova situazione, Rita Borsellino decide di ritirarsi dalla corsa per Palazzo delle Aquile.

A questo punto si rimette in gioco Orlando: “Le primarie sono state inquinate, mi candido”.

Contro di lui inizia il gioco al massacro: “Traditore delle primarie”, “Incoerente”, “Malato di protagonismo”. Molti tirano fuori le “prove” della delegittimazione di Falcone e la farsa continua.

Non sappiamo se Orlando vincerà o perderà, ma sappiamo due cose. La prima: se è vero che le primarie si sono svolte in modo irregolare, ha fatto bene a candidarsi. La seconda: se oggi c’è un’Italia più consapevole e più desiderosa di legalità, una parte del merito è suo. Non riconoscerlo non è onesto.

Cari signori, che vi piaccia o no, c’è un’Italia che non dimentica. E c’è un’Italia che fa il tifo per lui. Io sono fra questi.