Sono giornate tristi per la democrazia italiana, ma tutto procede allegramente, come se niente fosse. Giornate che dimostrano quanto ancora nel nostro Paese il cammino per raggiungere una democrazia vera, compiuta, moderna sia faticoso e irto di ostacoli.

Il primo evento negativo riguarda l’annullamento da parte della Suprema Corte della condanna per concorso esterno in associazione mafiosa inflitta in primo e in secondo grado a Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia e vera mente politico-finanziaria di quel gruppo. O meglio: più che un annullamento, un rinvio in appello del processo Dell’Utri, cioè un nuovo dibattimento con la prescrizione che incombe nel 2014.

Ovviamente bisogna partire dall’idea che le sentenze dei magistrati si rispettano sempre, anche quando sono sgradite, e in questo caso non sfuggiamo alla regola: rispettiamo la sentenza, ma ci arroghiamo il diritto di discuterla.

Una su tutte: il colpo inferto al reato di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo che per quel reato sono stati condannati in via definitiva Bruno Contrada, Ignazio D’Antone ed altri pezzi delle istituzioni ritenute colluse con Cosa nostra, ma tutto sommato non appartenenti ai vertici dello Stato.

Quando la Cassazione – o meglio, talune sezioni di essa – deve giudicare un processo sul cosiddetto Terzo livello, ecco che improvvisamente si crea il corto circuito. È sempre stato così. Un tempo, fra il primo e il secondo grado c’era l’ “insufficienza di prove” che mandava assolti politici e mafiosi; dagli anni Ottanta in poi c’è stata la Cassazione, dapprima con Corrado Carnevale, ora con i suoi “alter ego”, o al limite con qualche magistrato catanese che ai tempi del delitto Fava insabbiava i processi che riguardavano i cavalieri del lavoro.

La Cassazione ci dice che non basta provare il legame con la mafia se non si accerta che da quel legame è stato tratto un vantaggio.

Quindi per condannare Dell’Utri non basta accertare che la mafia abbia votato unita per Forza Italia, che le liste e le sezioni di quel partito siano state inquinate dalla presenza di mafiosi, di camorristi e di ‘ndranghetisti, non bastano i rapporti stretti di Dell’Utri con i Bontate, con i Cinà, e con i Mangano, o che certi capitali sporchi fatti a Palermo siano stati reinvestiti a Milano nel mondo dell’edilizia e della televisione mediante Berlusconi. Non bastano le condanne in primo grado e in appello. Ci chiediamo cosa ci vuole.

Con questo ennesimo bizantinismo giuridico inaugurato della sentenza che mandò assolto l’ex ministro Calogero Mannino, si giustifica la posizione di tanti altri politici – magari spacciandola per garantismo – invischiati fino al collo nei rapporti con le organizzazioni criminali, primo fra tutti il governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo.

Ora, comprenderete benissimo che se non si recide il cordone ombelicale che unisce la politica alle organizzazioni criminali, non ne usciremo mai, saremo uno Stato a democrazia limitata, uno Stato governato perennemente da Cosa nostra.

E in uno Stato governato da un’organizzazione eversiva non c’è da meravigliarsi se la notizia dell’assoluzione di dell’Utri viene trattata come tante altre. Non è “la” notizia, ma un fatterello di cronaca da dimenticare nel giro di mezz’ora, senza contesto, senza memoria storica. Sappiamo tutto di Salvatore Parolisi, di Sabrina Misseri, di Garlasco, di Cogne, e non conosciamo le prove per le quali il braccio destro di Berlusconi è stato condannato in primo e in secondo grado. Chi sa chi erano (e chi sono) i boss amici di Dell’Utri, chi sa con quali soldi Berlusconi ha costruito il suo impero?

Tutto viene nascosto da una televisione che deve nascondere l’eversione di un sistema mafioso.

Di fronte a una “bomba” come l’assoluzione di Dell’Utri, perfino un programma come “Ballarò” – con i soliti argomenti, con i soliti politici, con le solite tabelle e con i soliti sondaggi, e dove paradossalmente l’unico che fa veramente informazione è Maurizio Crozza – appare un contenitore vuoto e monotono: il dibattito sulla politica italiana non può essere ridotto solo a una questione di carattere economico. È necessario discutere sulla tenuta democratica di questo Paese in relazione al condizionamento della mafia, della massoneria, dei servizi segreti deviati e della corruzione. Perché è da questo disastro morale che dipende il disastro economico della Nazione.

Il secondo evento negativo riguarda l’insulto che un altro personaggio eccellente come il generale del Ros, Antonio Subranni, imputato anch’egli di concorso esterno in associazione mafiosa, ha rivolto ad Agnese Borsellino (“la signora Borsellino è affetta da Alzheimer”, ha detto) perché la vedova del magistrato fatto a pezzi in via D’Amelio ha dichiarato di avere appreso dal marito che l’ufficiale era “punciutu”, cioè mafioso.

Chiedete in giro chi è il generale Subranni, chiedete alla gente se sa che è stato il maggiore depistatore del delitto di Peppino Impastato. E poi ci fate sapere.

Qui il problema – per chi non lo avesse ancora capito – non è fisiologico, ma patologico, e riguarda la malattia del sistema democratico.

I medici non possono essere solo i magistrati e i poliziotti onesti. E neanche la maggior parte dei partiti italiani, che ormai sono i più ammalati di tutti.

I veri medici siamo noi. Perché è vero – come dice De Gregori – che “la storia siamo noi”. Hitler al potere non è arrivato per caso. E neanche Mussolini. E neanche Stalin. E neanche Pol Pot. Li ha voluti il popolo. Andreotti non lo ha mandato lo Spirito santo.

Nel ’93 la società italiana – dopo le stragi e dopo Tangentopoli – fu attraversata da un fremito di indignazione e fu sul punto di cambiare, di darsi una svolta realmente democratica. Mancava davvero poco. Poi arrivò Berlusconi che deviò la valanga, e la mafia esultò.

Il cambiamento dipende solo da noi. Attraverso l’impegno civile, la coerenza., il rifiuto dei compromessi, il voto. Mica c’è sempre Berlusconi.