Angelo durante le feste vende palloncini colorati. È talmente povero che non può permettersi una casa. Con la moglie e la figlioletta di sette mesi dorme nell’unico tetto che gli è rimasto, una vecchia automobile rimediata chissà quando e chissà come, che da tre anni è diventata la fissa dimora della sua famiglia.

Filippo ha ventitré anni e lavora saltuariamente. Per un periodo fa il muratore, poi il manovale, quindi il facchino, il meccanico, l’imbianchino, il posteggiatore abusivo. Quando va bene riesce a portare a casa anche quattrocento Euro. A quindici anni ha fatto la fuitina, a sedici il primo figlio, a diciassette il secondo, a diciotto il terzo. Vive con i genitori, un appartamento di tre stanze da dividere con l’altra sorella, che a sua volta ha portato in casa il marito e due figli. A sfamare le tre famiglie ci pensa il padre con la sua pensione di ottocento Euro al mese.

Laura è una lavoratrice part time in un centro commerciale. Ogni trenta giorni guadagna poco più di quattrocento Euro. In una settimana dovrebbe fare diciannove ore, ma spesso le fanno fare gli straordinari che non le vengono retribuiti, così come i festivi, le ferie e la maternità. All’inizio dell’anno le hanno pure detto: dobbiamo fare l’inventario. Dalle dieci di sera alle nove dell’indomani ha contato di tutto, scatolette, pannolini, televisori, pacchi di pasta, surgelati… Per undici ore di straordinario ha guadagnato ventisette Euro.

Mario fa parte di quell’esercito di assistiti che in Sicilia è catalogato con sigle incomprensibili: Lsu, Asu, ex articolisti. Lui è un Lsu, ovvero un lavoratore socialmente utile, la Regione ogni trenta giorni gli passa poco più di quattrocento Euro. Carmela, la moglie, invece è un’ex articolista. Entrambi sono precari, quindi risultano disoccupati. Mezza giornata al comune, l’altra mezza altrove, lui ragioniere, lei estetista. Reddito complessivo: duemila Euro al mese. Ma siccome oltre la metà del guadagno è in nero, quel reddito non risulta, non esiste. Anche loro, per lo Stato italiano, fanno parte della categoria dei poveri. Di quella categoria che, secondo le stime dell’Istat, nel nostro Paese – al pari del Portogallo, della Spagna, della Grecia – vive sotto il livello di povertà, cioè non riesce a guadagnare oltre settecento Euro al mese.

L’istituto di statistica dice che in Italia le persone povere sono un milione e mezzo, ma i sindacati affermano che sono molti di più. Tutti concentrati al Sud, specie in Sicilia e in Basilicata, ma anche in Calabria, in Campania e in Puglia. Un esercito in cui trovi di tutto, dai poveri autentici a quelli fasulli, dai disperati ai mantenuti, dagli spacciatori agli ambulanti abusivi. Tutti accomunati da quell’eterna arte di arrangiarsi e di fregare lo Stato che al Sud esiste da secoli. Persone che non ce la fanno a pagare l’affitto, le bollette, gli indumenti, le medicine, a volte neppure il cibo, e che, sommate ai “nuovi poveri” del ceto medio (soprattutto dipendenti statali con un solo stipendio), nell’ultima settimana del mese sono costrette a fare la fila alla Caritas per assicurarsi la busta della spesa. Ma anche persone fin troppo furbe che si fingono povere per eludere la legge.

Le storie di Angelo, di Filippo, di Laura e di Mario si svolgono in Sicilia, in città come Palermo, Catania, Messina, Enna (provincia, quest’ultima, considerata la più povera d’Italia, una percentuale di disoccupazione del 21,6 per cento), dove si concentra un sottoproletariato pieno di bisogni e di disagi, che non fa la rivoluzione perché, come dice padre Valerio Di Trapani, responsabile della Caritas diocesana di Catania, “è talmente abituata alla povertà da considerare normale qualsiasi ingiustizia”. Ma sono storie che rappresentano soltanto la punta dell’iceberg.

Padre Valerio di Trapani

“Ci sono individui”, prosegue padre Valerio, “che non possono disporre né di uno stipendio né di una pensione. Come vivono? Di espedienti”. Famiglie di dieci, dodici persone costrette a stare in una sola stanza dove mancano l’acqua e la luce. Famiglie che, come succede a Messina, vivono nelle baracche costruite dopo il terremoto del Millenovecentootto. Famiglie che prendono l’acqua alla fontanella vicina, che collegano la luce di casa con i fili dell’illuminazione pubblica. A Palermo nel popolare quartiere palermitano dello Zen interi condomini sono stati trovati con i contatori allacciati abusivamente.

A Catania, secondo le stime del Comune, esistono dodicimila senza casa. Alcuni anni fa centinaia di persone occuparono la cattedrale del capoluogo etneo, minacciando di impedire i festeggiamenti in onore di Sant’Agata se il sindaco non avesse dato loro un tetto.

A Palermo non c’è giorno in cui disperati di ogni tipo non scendano in piazza per rivendicare il diritto di vivere dignitosamente.

Mario Centorrino, docente di Economia all’università di Messina: “Esistono varie forme di povertà, tutte causate dalla mancanza di occupazione, ma legate spesso ad una illegalità diffusa che si manifesta attraverso vari fenomeni, dallo spaccio all’usura al lavoro nero”.

Michele Pagliara, segretario generale della Cgil di Enna: “Un tempo, per una famiglia, l’indebitamento rappresentava un problema molto serio. Ora è necessario per vivere. Il costo della vita, specie negli ultimi anni, è aumentato notevolmente, mentre i salari sono rimasti uguali. Ognuno si arrangia come può. Basta vedere i consumi mensili di una famiglia media: nelle prime tre settimane si comprano prodotti un po’ più costosi, nella quarta aumenta in modo esponenziale l’acquisto di patate”. Basta osservare il modello 730 degli oltre novemila iscritti al sindacato: il cinquanta per cento percepisce un reddito annuale che non supera i diecimila Euro. In questa provincia l’economia reale è rappresentata dal lavoro nero”.

“Nelle campagne”, dicono alla Cgil, “ci sono persone, non solo extracomunitari, ridotte in condizioni di schiavitù”. Braccianti locali che guadagnano dieci Euro al giorno e che rappresentano l’anello debole di una catena in cui il datore di lavoro è la parte più forte, spalleggiato da dipendenti compiacenti che, attraverso false dichiarazioni del capo azienda, percepiscono “la disoccupazione” prevista per i lavoratori stagionali. “Con la soppressione degli Uffici di collocamento (che garantivano regole certe), la disoccupazione non è diminuita per niente. In compenso si è rafforzato il clientelismo”.

Basta vedere ciò che accade nei numerosi call center che stanno nascendo come funghi anche in Sicilia. “Ci sono giovani”, dice Nicola Bertolo della Cgil di Catania, “anche con due lauree e con una famiglia da mantenere, che vengono retribuiti con paghe bassissime, senza che il datore si preoccupi di versare loro i contributi previdenziali. Ragazzi che pur di entrare in queste strutture assolutamente precarie, ricorrono al politico per la raccomandazione”.

Il politico. Il vero anello forte della catena. Colui che su questo esercito di poveri (veri o falsi) è riuscito ad investire alla grande. Basta vedere i risultati delle elezioni in Sicilia per capire che se i poveri non ci fossero bisognerebbe inventarli.