I campi polverosi della provincia siciliana, i calciatori imponenti come bronzi di Riace, la foto al centro del campo, il mazzo di fiori del capitano, il gagliardetto, il garofano che ogni calciatore lanciava negli spalti gremiti e festanti.

È il calcio siciliano degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta, con qualche sprazzo di anni Novanta, e poi nient’altro, non perché la pagina Facebook, “Calciatori siciliani d’altri tempi”, pubblica solo foto e notizie di quell’epoca, ma perché il calcio di provincia del periodo successivo non è stato più quello affascinante e mitico di un tempo, ma questo è un pensiero soggettivo, quindi criticabile.

Affascinante e mitico, sì, sono i termini giusti. “Dilettantistico”, no, è un ingiusto eufemismo, specie se paragoniamo il calcio di allora con quello di oggi di pari categoria: non c’è partito, detto con la “o” finale, come si ripete in certe parti della Sicilia quando si vuol significare: non c’è paragone.

Bisogna collegarsi con quella pagina fb, osservare certe foto, ma soprattutto collegarsi con la memoria. Non per nostalgia dei tempi andati, ma perché calcisticamente, i tempi che furono, sono qualcosa di molto profondo e difficile da spiegare, specie a chi oggi – non per colpa sua, ma per colpa degli interessi televisivi che si sono inghiottiti perfino l’anima – confina il calcio dentro gli steccati di Juve, Inter, Milan, Roma e nient’altro.

Come fai a spiegare che in quegli spalti gremiti e festanti c’era il contadino, il falegname, il macellaio, il fabbro ferraio, il maestro elementare, il professore, l’avvocato, il notaio, l’imprenditore, uniti in un caloroso abbraccio dopo il gol della squadra del cuore, senza differenza di casta, di soldi, di colori politici.

Certi stadi di provincia, allora, erano davvero scarsi: una tribunetta di pochi gradini, una casetta che faceva da spogliatoio – a volte con la doccia fredda – e nient’altro. Altri avevano solo la tribuna scoperta, altri la tribuna coperta e dirimpetto quella scoperta, altri – come quello del mio paese, Belpasso, in provincia di Catania – un magnifico anello di gradoni in pietra lavica che attorniava il rettangolo di gioco: ognuno poteva assistere alla partita da qualsiasi postazione (poi, negli anni Ottanta, quando la politica capì che stravolgere perfino uno stadio significava soddisfare certi appetiti, scimmiottò la modernità e fece una cosa da ridere, ma questa è un’altra storia). Ma a prescindere dalla bellezza o dalla bruttezza degli stadi, c’erano squadre…

Come fai a spiegare che ci fu un tempo in cui la cultura calcistica non era confinata agli squadroni della serie A. Certo, il tifo per Juve, Inter e Milan è sempre stato fortissimo, da Bolzano a Lilibeo, ma da Bolzano a Lilibeo l’attaccamento per la squadra della propria città era strabordante: si vedeva la partita e contemporaneamente si ascoltava alla radio Tutto il calcio minuto per minuto. C’erano sì, la Juve, l’Inter e il Milan, ma c’erano anche lo Sciacca, il Mazara, l’Empedoclina, lo Scicli, la Pattese, la Belpassese.

Era il tempo in cui in Sicilia le autostrade erano un’utopia, il paese più sperduto era il “mondo”, e quel “mondo” (il migliore in assoluto per chi lo viveva e per chi ci viveva) la domenica si scontrava con un altro “mondo”, che a sua volta si riteneva il migliore in assoluto, anche a distanza di venti o trenta chilometri. Lasciamo immaginare se i chilometri erano duecento o trecento. O forse non è possibile neanche immaginarlo: le stradine piene di buche, di curve, di tornanti, di frane, e quel torpedone che trasportava la squadra che doveva rallentare se la carreggiata era occupata da un gregge di pecore, da una mandria di buoi, da un contadino col mulo. In quel caso, lo scontro era fra “universi”, all’epoca rigidamente posizionati fra Sicilia occidentale (con le province di Palermo, di Trapani, di Agrigento e di Caltanissetta) e Sicilia orientale (Catania, Messina, Siracusa, Ragusa), con Enna ibrido perché posizionata in mezzo.

Ma bisognava esserci in quelle tribune sgangherate, con quei personaggi pazzeschi che vivevano la domenica calcistica come se fossero in trance. Personaggi dalle ‘ngiurie (i soprannomi) intraducibili e disparate, perché quelle ‘ngiurie hanno sempre racchiuso l’identità e la civiltà di un popolo.

Al mio paese c’era il poeta che, durante la partita, declamava i versi dialettali per la propria squadra, il super tifoso che in pieno dicembre si spogliava (restando in mutande), perché l’emozione era talmente tanta che cci acchianavunu ‘i caluri, gli saliva la pressione dopo il gol del suo beniamino, e l’altro super tifoso costretto a rifugiarsi dentro il cofano di una macchina perché i tifosi avversari volevano fargli la pelle.

Era un calcio che rispecchiava i valori di una società non ancora in decadenza e con una precisa identità culturale. Non solo nelle tribune, ma anche in campo. La sensazione che si ha nel guardare la foto di quei calciatori è assolutamente difficile da spiegare. Una sensazione riassumibile in una parola: carisma, ovvero capacità di esercitare un forte ascendente sugli altri. Ma il carisma da dove trae origine? Anche qui, difficile rispondere: forse dalla sofferenza, dalla fame, dalla fatica, dalla passione, dall’amore, o forse da tutt’e cinque le cose.

Ma il carisma, da solo, non basta per spiegare quella straordinaria “combinazione chimica” che si creò nei campi di calcio della Sicilia dopo la Seconda guerra mondiale.

Ce un’altra parola che si intreccia indissolubilmente con questa: classe. Innata, naturale e spontanea, in campo e fuori. Difficile, anche in questo caso, spiegarne le origini. Ma intanto, se chiedi a una persona di quella generazione, “quanto vale una Promozione o una serie D di allora?”, ti senti rispondere: “Almeno a una serie C o B di oggi”. Almeno… Chissà perché? Forse perché molti calciatori talentuosi di allora restarono nell’Isola per assecondare il pregiudizio dei genitori (semidei per un ragazzo del tempo) che non permettevano ai propri figli di trasferirsi al Nord, o la concentrazione di tanti bravi giocatori nei campionati “minori” rispetto alla A e alla B, dove accedevano i più forti, certo, ma anche i più fortunati (geograficamente parlando). La storia di Pietro Anastasi la conoscono tutti: mentre giocava con la Massiminiana in un campo di periferia accanto all’aeroporto di Catania, lo vide il presidente del Varese che per puro caso (l’aereo portava qualche ora di ritardo) assistette alla partita: restò fulminato e lo portò in Lombardia. Poi ci pensarono gli Agnelli a farlo sbarcare alla Juve e al ct Valcareggi alla Nazionale.

Ma di altri Anastasi, in Sicilia, a quel tempo, a sentire parecchia gente, ce ne sono stati un bel po’. Per questo, quel calcio, ancora oggi, viene considerato mitico e affascinante, al punto da suscitare successo in una pagina Fb. Rivedi gente fortissima, rimasta nell’isola per una serie di circostanze della vita. E allora capisci perché “quel calcio”, dopo diversi decenni, è entrato nel mito.

A rafforzare il mito contribuivano i tre quotidiani siciliani (La Sicilia, il Giornale di Sicilia e la Gazzetta del Sud) che il lunedì (ma anche gli altri giorni) facevano pagine sportive da antologia, con paginoni ricchi di foto, pagelle, e quelle fantastiche “note” scritte in grassetto, dalle quali apprendevi se il campo era allagato,”gibboso”, “lento”, se c’era freddo, se c’era caldo, se spirava la brezza marina. Ma allora i giornalisti sportivi di queste testate si chiamavano Candido Cannavò, Luigi Prestinenza, Carmelo Gennaro, Giuseppe Siragusa, e tanti altri.

C’è un altro elemento che forse non è stato determinante per creare il mito – anzi, per molti, sarà pure il contrario – ma per chi scrive è importante: quelle tribune malmesse e quei campi polverosi, spesso ubicati al centro di una città, attorniati dai palazzi da dove la gente partecipava alla festa. Oggi in diverse realtà ci sono stadi più funzionali, magari con l’erba sintetica, ma sono vuoti, senza spettatori, senza identità: molta gente è davanti al televisore per seguire la serie A, un rito sempre più triste e noioso. Non c’è quel tappeto marrone nel quale restavano impressi i tacchetti dei propri calciatori, tracce indelebili per un bambino che dopo la partita osservava quella terra battuta e l’accarezzava per saggiarne la consistenza e l’anima, mentre il sole drammatico si perdeva dietro le montagne.

Nella foto: stadio di Mazara del Vallo. Partita Mazara-Trapani. Stagione 1971-72 (immagine di Giuseppe Vitanza, tratta dalla pagina facebook, Calciatori siciliani d’altri tempi)

Luciano Mirone